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Procura di Roma: processi a numero chiuso

Il  7 marzo 2014 è stata pubblicata in un articolo del Corriere della Sera la notizia che al Tribunale di Roma non si possono celebrare più di 12.000 processi l'anno. Una decisone presa di comune accordo tra il Procuratore della Repubblica ed il Presidente del Tribunale di Roma, con il placet del Csm, i quali hanno stabilito che: "causa la grave mancanza di personale giudiziario, occorre contingentare il numero delle cause dando la precedenza nel settore penale ai reati che destano un maggiore allarme sociale mentre quelli meno gravi, al momento, saranno dirottati su un binario morto in attesa di tempi migliori". Questa decisione ha scatenato non poche polemiche. Di seguito riportiamo il comunicato stampa dell'Unione camere Penali:

Se la Procura di Roma "sceglie" i processi da celebrare, e dunque i reati da perseguire, con tutte le giustificazioni che si possono dare a questa decisione, rimane il dato conclamato della violazione del principio di obbligatorietà dell'azione penale, che è fissato in Costituzione in diretto collegamento col principio di uguaglianza dei cittadini e, pertanto, rappresenta uno dei caposaldi della democrazia. La prima conclusione da trarre, soprattutto da parte di chi si oppone da sempre ad ogni ipotesi di riforma costituzionale della giustizia, con argomentazioni apocalittiche che prefigurano il sovvertimento dello stato repubblicano, è che la Costituzione è già stata cambiata, ma da apparati burocratici e nel chiuso delle loro stanze, invece che dal Parlamento e seguendo le procedure previste dall'art. 138 Cost.. Il che è gravissimo e dovrebbe incontrare la censura del C.S.M..

A questa vanno aggiunte altre considerazioni. La vicenda non è nuova, poiché da anni la magistratura va tastando il terreno con iniziative, similari a questa o del tutto diverse, che sono volte a conquistare spazi di discrezionalità politica senza sopportare la relativa responsabilità, così come in passato è riuscita ad occupare – e per sempre – i gabinetti dei Ministeri con i propri fuori-ruolo. Il metodo ha dei tratti comuni e si fonda essenzialmente su un circuito mediatico-giudiziario oramai oliatissimo, grazie al quale si riesce a creare la notizia che a sua volta fa si che l'opinione pubblica abbia la "percezione" dell'emergenza, la quale non per forza coincide con la "realtà" dell'emergenza. In tal modo, si riescono ad affermare prassi distorte e, in seconda battuta, finanche ad ispirare modifiche legislative che le traducono in norme. Gli esempi sono mille e vanno dall'attribuzione di un successo investigativo esclusivamente alle intercettazioni , per poter forzare i limiti fissati dall'art. 15 della Costituzione, alla mostrificazione dell'arrestato di turno, ritratto in manette all'uscita di casa da reporter appositamente convocati, che alimenta la richiesta di carcere e mortifica gli articoli 13 e 27 della Costituzione, per finire alla descrizione di una giustizia al collasso, sottacendo che le gravi disfunzioni sono dovute a difetti di organizzazione e di produttività degli uffici, per far passare l'art. 24 della Costituzione come affare da azzeccagarbugli e sopprimere il diritto di difesa dei cittadini, proponendo prescrizioni brevi, processi abbreviati e meglio se alla tele, giudici intercambiabili, impugnazioni eventuali e sempre più virtuali.

Tutto questo accade per via di una politica sempre più debole: quando va bene assente, quando va male addirittura complice di chi la istiga al suicidio. E non si riesce a cambiar verso, se anche il neo premier anziché assumere una posizione, che sia una, autonoma in materia di giustizia, si è limitato a menzionare, nel discorso d'insediamento, l'omicidio stradale, ossia quel reato - peraltro già introdotto, sostanzialmente, pochi anni fa, con innalzamenti di pena specifici e severissimi - che è in testa ai titoli dei telegiornali ma in coda nelle statistiche scientifiche, quelle sulle quali chi governa dovrebbe regolare la propria azione. E non va meglio in Senato se, dopo la frustrante esperienza dello svuotamento dello "svuota-carceri", adesso sono stati presentati emendamenti che mirano ad affossare la riforma della custodia cautelare appena licenziata dalla Camera. Il tutto mentre il sottosegretario alla Giustizia teorizza di relegare il rito accusatorio solo ad alcuni reati più gravi, in modo da istituzionalizzare così la prassi, già dilagante nelle aule giudiziarie, di prospettare il diniego delle attenuanti se non si dà il consenso all'acquisizione degli atti istruttori, rinunciando all'oralità del processo.

La politica ha bisogno di uno scatto di orgoglio, l'abbiamo detto per il problema carcere ma vale per tutto il tema della giustizia, ed invasioni di campo così eclatanti come quella di Roma devono costituire l'occasione per ristabilire l'equilibrio tra i Poteri dello Stato e ribadire la centralità del Parlamento. Tanto più che il tipo di giustizia che oramai da diversi anni si va delineando è sempre più quello di una giustizia per ricchi, poiché chi subisce un torto e non ha mezzi non vedrà nemmeno partire il processo penale contro l'autore del reato, atteso che il Procuratore di turno avrà considerato il suo processo indegno di impegnare l'Ufficio e la giustizia sarà denegata, con tanto di timbro su un immotivato decreto di archiviazione. Il processo come strumento di sperequazione sociale, dunque, alla cui trasformazione la classe politica assiste impotente, magari declamando, con ipocrisia consapevole, che la nostra è "la più bella Costituzione del mondo".

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