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NELLE PROFONDITA’ DELLA VOCE

Si è inaugurata, il 9 aprile, la folgorante mostra “Il Corpo della Voce” al Palazzo delle Esposizioni, a cura di Anna Cestelli Guidi e Francesca Rachele Oppedisano, promossa dal Comune di Roma, che proseguirà fino al 30 giugno. Concepita come costante fonte sonora e visiva per il visitatore e come percorso esperenziale, tra il visibile e l’invisibile, ho incontrato, tra bagliori vocali e suggestioni tecnico-visive, il Presidente Cesare Maria Pietroiusti. Artista egli stesso e docente, laureato in Medicina con tesi in clinica psichiatrica, dal 1977 inzia a partecipare attivamente nel centro studi Jartrakor che fonda insieme a Sergio Lombardo. Sperimenta l’arte “relazionale” che prevede il coinvolgimento consapevole del pubblico attraverso stimoli visivi. Fonda e coordina centri di ricerca, espone in Italia e all’estero, il suo percorso rivela sempre l’interesse a scoprire, tra eterogeneità di forme e linguaggi, le possibilità di interazione tra opera, artista, fruitori e le opportunità di sconfinamento.

Cesare Maria Pietroiusti (foto di Ivo Corrà)          

Cesare Maria Pietroiusti (foto di Ivo Corrà)

D: La voce come strumento, ma anche come essenza e manifestazione evidentemente di qualcosa di più profondo da sondare, scoprire e attraversare. Perché fare una mostra di questo tipo, oggi, inserendovi all’interno tre protagonisti, in campi artistici differenti che hanno “esplorato” la vocalità?

R: E’ molto bella la metafora della profondità, perché, e me lo fa venire in mente lei in questo momento, tocca due aspetti: quello anatomo-fisiologico, perché la voce in fondo nasce in zone un pò profonde che sono la laringe, la trachea, l’apparato respiratorio, il nostro torace, insomma, nasce laggiù, dove il controllo cosciente arriva fino a un certo punto. Non le vediamo le nostre corde vocali. Ma la profondità è anche quella del senso, dell’espressività, della poesia, del canto, dell’immnensità, anche emozionale, che ovviamente una espressione vocale può dare. Credo che il motivo per cui abbiamo fatto questa mostra è proprio la ricerca e coincidenza di queste due profondità: quella del corpo, come anatomia, fisiologia e muscoli e la profondità dell’espressione teatrale, canora, di ricerca sull’espressione poetica di questi tre autori: Carmelo Bene, Demetrio Stratos e Cathy Berberian. Il motivo, quindi, è trovare questo punto comune tra il fisico e il linguistico, tra il sensibile e il simbolico, tra il livello, appunto, dell’anatomia e dell’espressività e individuarlo in una interazione tra discipline diverse. Ci sono il canto, il teatro, la musica rock, la poesia. Tutti territori che questi artisti hanno indagato e sperimentato, essendo loro stessi personaggi interdisciplinari.

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Carmelo Bene (1937-2002), per i suoi spettacoli-concerto, utilizzava i microfoni, come microscopi sulla voce: l’amplificazione della phoné era interpretata come lente di ingrandimento su quello che la voce poteva riuscire a compiere. Il medium rappresentava il prolungamento del corpo dell'attore, l'ipersensibilità dei monitor, avrebbe rivelato l'espressione, l'intensità e i valori della voce che sarebbero rimasti, altrimenti, solo lievemente percepiti.

D: Quindi, il bisogno e la ricerca di scoprire ancora qualcosa rispetto a quello che hanno rappresentato questi tre grandi precursori…

R: Assolutamente sì. Scoprire una potenzialità. Rendersi conto delle proprie potenzialità, ad esempio, vocali, in senso ampio. Gli esercizi con il metodo Linklater, previsti nella Mostra, servono ad introdurre, a rendersi conto di questa facoltà che tutti abbiamo indistintamente ed è certamente una scoperta grandissima. Sembra scontato il parlare, il cantare e l’esprimersi a livello vocale, ma non lo è affatto, averne consapevolezza offre delle possibilità conoscitive ed espressive straordinarie. Rendersi conto di come si articolino, ad esempio, il linguaggio e le consonanti nella bocca. Cosa si sente nel palato o nelle labbra quando si dice una “B” o quando si dice una “S” o la “R”, la consonante più complessa di tutte. Tutto questo non è scontato. Oltre al fatto che questi artisti ci presentano delle opere meravigliose che, essendo anche poco note, molte, possono rappresentare per il pubblico una scoperta.

D: Secondo lei, questi tre ricercatori, in anticipo sui tempi, su tutto quello che ancora non è stato fatto o che ancora non si è verificato, cosa hanno in comune?

R: I tre artisti hanno aperto delle strade che devono ancora essere percorse e hanno in comune la ricerca delle possibilità inesplorate della voce.

D: Questi tre ricercatori hanno cominciato a sperimentare le possibilità della voce e quello che si poteva fare, proprio attraverso la tecnologia. Il registrarsi ha permesso di scoprire e cogliere aspetti e valori che solo il Medium, in quanto tale,  riesce a carpire.

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Demetrio Stratos (1945-1979), mentre esegue i Mesostics di John Cage allo Spazio Fiorucci di via Torino, Milano, 1977, si spinge oltre i limiti fisici, interpretando la cavità orale, la bocca nella sua materia e fisicità, come un esperimento di infinte possibilità. (Foto di Roberto Masotti - Lelli e Masotti Archivio).

R: Quello che è successo anche all’Ottica, alla Visione con la fotografia con la possibilità di ingrandire. Walter Benjamin nel suo “L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica” descrive l’idea dell’inconscio ottico e come lo strumento ti consente di vedere aspetti che non vedevi prima o vederli comunque, in un modo diverso, creando una potenzialità anche per “l’occhio vivente”. I tre artisti sono differenti proprio perché aprono alla tematica da campi diversi, ma arrivano in quel punto di indistinzione, in cui il Logos, il significato della parola non è semplicemnte un rumore, diciamo prelinguistico bestiale, va in quella direzione, ma al tempo stesso approfondisce il suo senso e quindi, crea una vertigine, che loro tre rappresentano.

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Cathy Berberian (1925-1983), attraverso la sua poliedricità vocale e il suo essere anticovenzionale, diventa una eccezionale interprete e protagonista della musica contemporanea e sperimenta  le nuove possibilità della musica elettronica, diventando fonte di ispirazione per molti compositori del Novecento come John Cage, Luciano Berio, Sylavno Bussotti e Bruno Maderna.

D: All’interno del progetto-Mostra c’è uno spazio dedicato agli esercizi di memoria con Chiara Guidi, della Societas “Raffaello Sanzio”. Famoso il “Giulio Cesare” portato in scena dalla compagnia, dove, il personaggio di Marco Antonio, era interpretato da un laringectomizzato…

R: Chiara Guidi è una sperimentatrice dello strumento-voce, straordinaria, è inoltre una grande didatta. L’abbiamo chiamata a fare un laboratorio qui, perché ci interessa questo aspetto della formazione. L’interdisciplinarietà si misura sulle persone che non hanno una specifica competenza o quando vogliono metterla alla prova. E’ nel gruppo che si manifesta l’interdisciplinarietà e Chiara Guidi coinvolge settanta, ottanta persone che non sono cantanti, né attori e gli fa fare un coro affiancando quattro attrici. Per la prima volta realizza questo suo spettacolo, l’Edipo Re di Sofocle, partendo da un lavoro fatto con ottanta non professionisti, ottanta persone.

D: Che però hanno la voce...

R:  Come tutti! Anche gli afoni e i laringectomizzati hanno una voce.

D: Perché non si è consapevoli della propria voce? Avviene, per la maggior parte delle persone, uno spaesamento, qualcosa che è nostro, ma che sembra non appartenerci. Riascoltandoci diciamo: “Ma sono proprio io? Non è possibile! Non mi riconosco!” Perché non c’è questa coscienza?

R: Credo perché ci siano delle forme di atrofìa che riguardano in generale il corpo, in un tempo in cui le tecnologie prendono il sopravvento e, sostanzialmente, si sostituiscono. La comunicazione, oggi, è molto di immagine, di testo, di schermi: computer, telefonini etc. etc. e meno sulla voce, ma soprattutto perché io credo che ci sia una svalutazione della consapevolezza come valore in sé. Siamo tutti orientati, dal contesto, a spingere sulle nostre capacità performative, pensando solo al risultato. Performance all’inglese, sull’obiettivo.

D: L’effetto wow…

R: Sì! Siamo stimolati solo dall’obiettivo da raggiungere nella vita, nella giornata, nella nostra azione lavorativa, ma la prassi della vita in sé, della forma di vita in sé, è considerata una perdita di tempo, mentre è il modo migliore per utilizzare il tempo.

D: Quindi c’è un distacco da se stessi?

R: C’è, in un certo senso, un distacco dalle proprie potenzialità, sono considerate una cosa minore, non importante, ed è per questo che io dico sempre che L’ARTE E’ L’ACCESSO AL SENSIBILE ed è LA PRIMA FORMA DI GIUSTIZIA SOCIALE perché è il terreno sul quale ognuno può godere di livelli di bellezza dell’intensità conoscitiva che sono disponibili per tutti, mentre ci fanno credere che sono solo per pochi. Questa è la grande ingiustizia dei nostri tempi. C’è una sconnessione rispetto a quelle potenzialità: tutti dobbiamo comperare lo stesso telefono, la stessa automobile, fare le stesse cose. Il valore dell’esperienza che la ricerca artistica può offrire, come scoperta di sé, piacere e soprattutto intensità, non è considerata in ambito sociale.

D: Una società liquida, come spesso definita, che non consente quindi una realizzazione empatica tra esseri umani. I rapporti umani sono polverizzati e si diventa anafettivi, per citare Massimo Fagioli, con l’anaffettività il corpo non c’è, il corpo si perde, il corpo si sgretola…

R: Infatti, queste forme di vita di accesso al sensibile, sono delle forme comunitarie per me.

D: Secondo lei, Roma, che voce ha in questo momento della sua storia? Mi può dare un suono? Me lo può sussurrare?

R: Non so se si può sussurrare il suono di Roma, non avrei la presunzione di fare questa sintesi, però credo che sia un suono plurale in cui, purtroppo, troppo spesso, le singolarità non entrano in una coralità, che come ci insegna Anna Arendt, è l’unico modo in cui si è umani e si fa politica.

 

Claudia Cotti Zelati

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