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Il soggolo del pupazzo

Avv. Rodolfo Murra, avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOQuella sotterranea mai sopita, sfiducia verso gli avvocati.

Quando superai l’esame di abilitazione alla professione forense gli amici di infanzia mi regalarono un pupazzo, raffigurante un avvocato in toga, sul cui soggolo compariva la scritta: “Il primo atto di una causa è l’acconto”. Il motto, sarcasticamente ed in modo simpatico, stava a significare quel comportamento dell’avvocato che, senza tanti giri di parole, enuncia al cliente che se intende avvalersi della propria opera deve intanto versare un anticipo in denaro. A ben vedere si tratta di un contegno che, insieme a molti altri, l’uomo comune attribuisce alla categoria forense come se si trattasse di un fatto disdicevole. Tuttavia la lex Cincia è da secoli che non esiste più. E, del resto, nei riguardi degli avvocati – come comunque avviene per molte altre categorie professionali – esistono svariate barzellette che servono a dipingere, in modo ironico, taluni luoghi comuni dello svolgimento dell’incarico difensivo. Nulla di anormale, se si resta nel campo della satira.
Ma se, dopo che finanche alcune cariche istituzionali si sono permesse di alimentare un clima di “dalli al togato” con interviste e commenti di sgradevolissimo sapore, ci si mette anche il legislatore patrio a far intendere che gli avvocati sono una massa di furfantelli, le cose si mettono davvero male.
E’ il caso del decreto legislativo sulla mediazione civile, n. 28 del 2010, che all’art. 4 comma 3 disciplina gli obblighi di informazione che gravano sull’avvocato.
Il legale, infatti, in forza di detta regola, è tenuto ad informare il proprio l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. L’informazione, dice la norma, deve essere fornita chiaramente e per iscritto ed il documento che contiene l’informazione, sottoscritto dall’assistito, deve essere allegato all’atto introduttivo dell’eventuale giudizio.
Se dunque è richiesta la forma scritta per sancire l’assolvimento dell’obbligo di informativa, la norma poteva ben finire qui, tenuto altresì conto che l’ultima parte del comma 3 stabilisce che “il giudice che verifica la mancata allegazione del documento informa la parte della facoltà di chiedere la mediazione”.
Non bastava. Si voleva a tutti costi dare un segnale di vera e propria umiliazione.
Si è infatti aggiunto, nella stessa disposizione, che “in caso di violazione degli obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito è annullabile”. Si tratta, in tutta evidenza, di una prova di clamorosa ed innegabile sfiducia che si nutre verso il professionista forense, rispetto al quale il legislatore alimenta una inammissibile diffidenza.
Si vuol presupporre, cioè, che il difensore possa aver sottaciuto al proprio cliente la possibilità (oggi) o doverosità (domani), e si introduce un’azione di annullamento del negozio di assistenza che di fatto espone il professionista a rischi enormi, che giungono sino al punto di poterlo considerare, processualmente, la vera parte nel giudizio (se il mandato è annullato egli potrebbe essere accusato di essere stato, in causa, di persona).
Le associazioni forensi hanno criticato molto alcuni punti fondamentali del decreto legislativo, primo fra tutti quello che non prevede l’obbligo di difesa tecnica nel procedimento di mediazione.
La pretesa che l’avvocato debba essere presente, a fianco della parte, nella mediazione, può anche dare vita ad una vera e propria battaglia di classe in senso rivendicativo, ma i detrattori diranno che tale richiesta nasconde pur sempre quel desiderio di remunerazione che stava scritto sul soggolo del mio pupazzo. Ciò che invece, a mio parere, non può proprio passare, è quel sentimento di sfiducia, di perenne sospetto, nei riguardi del contegno dell’avvocato che colloquia col proprio assistito, che indebolisce l’intera categoria nell’immaginario collettivo.
Poco tempo fa ho scoperto che su un sito di un’Associazione di tutela di consumatori c’era un vademecum, intitolato “come difendersi dagli avvocati infedeli”, nel quale la figura dell’avvocato veniva dipinta – con generalizzazione disarmante – come quella di un mascalzone truffatore, che profitta dell’ingenuo assistito.
Una volta, esibire il tesserino di appartenenza all’Ordine degli Avvocati costituiva motivo di fierezza e di orgoglio: con il tempo che passa sembra che ci si debba vergognare di indossare la toga. Così ho deciso di sostituire il soggolo del mio caro pupazzo. E ci ho scritto: “Il primo atto di una causa è informare il cliente che ci potrà fare causa”.

Rodolfo Murra*

Avvocato del Foro di Roma e Segretario Ordine Avvocati

 

 

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