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Testamento biologico, sì condizionato

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOFino a che limite il paziente è informato, quanto e come vuole essere informato e fino a che punto può decidere tra diritto alla vita o diritto alla morte?

 

In relazione alla proposte di legge Pisapia e Ripamonti-Del Pennino, sento il dovere, quale docente di chirurgia nonché responsabile di un servizio universitario di oncologia avanzata e moderna, di proporre alcune considerazioni che possono far riflettere gli studenti, i medici, gli avvocati, i magistrati e la gente comune.

Sappiano che quotidianamente ci troviamo di fronte a pazienti che, a causa dei mass media, di internet, di rapide comunicazioni televisive, di messaggi o di cultura medica «popolare», sono spesso disorientati su atteggiamenti clinici o scelte farmacologiche da proporre a se stessi o ai propri cari anche a causa di coincidenza di prescrizioni di medici diversi; subentra a questo punto, spontaneo per chi è addetto ai lavori, di chiedersi fino a che limite il paziente sia informato, quanto e come voglia essere informato, e fino a che punto (sia esso culturalmente ricco o dotato solo di senso pratico) possa decidere tra diritto alla vita o diritto alla morte.

Sappiamo che il consenso «informato», per quanto esauriente e dettagliato, non può mai, in maniera diretta, dire al paziente che ha un tumore, che gli permetterà di vivere poco. Trovo, a questo punto estremamente corretto sul piano etico, deontologico ed umano chiarire con note indiscutibili che di fronte ad una malattia inguaribile, egli sappia di avere una patologia grave e curabile, e che possa divenire più grave e mortale se non curata (solo così potremmo diminuire o evitare il numero di suicidi da depressione reattiva).

Per quel che riguarda la decisione che un soggetto possa o debba decidere se donare organi, se voler usufruire di terapie compassionevoli o di voler usufruire di accanimenti terapeutici in «limite vitae» trovo estremamente incauto pilotare la volontà del cittadino, in quanto sappiamo noi stessi che le decisioni intorno ad argomenti così delicati come anche per il temibile «suicidio assistito» e per l’eutanasia, possano essere influenzati da momenti, notizie, stati d’animo, considerazioni viziate da fenomeni familiari od altro. Sappiamo inoltre che a venti anni, ed è l’esperienza personale colloquiando con i miei studenti, non si può avere lo stesso concetto del diritto alla vita od alla morte che si può avere a settanta anni e, per di più la differenza etnica, religiosa, morale o ambientale possono influire in modo determinante e possono far cambiare le decisioni.

In ultima analisi, ritengo dopo accurata ponderazione e consultazione con persone di varie condizioni sociali ed età, che si possa accettare un’eventuale, volontaria, richiesta di «testamento biologico» solo a condizione, in pazienti perfettamente conosciuti, di poter rinnovare, come per una carta d’identità, ogni 5 anni dopo i 50 anni ed ogni 10 prima di tale età, la volontà espressa o di modificarla per alcune voci o di annullarla.

Solo così il medico, di fronte a frangenti in cui debba decidere insieme ad altre autorità se far morire o vivere il paziente, potrà venire incontro al desiderio del paziente che è conscio di quello che vuole, ma soprattutto non dovrà venire al compromesso con il suo compito di essere «custode della vita» come dice Giovanni Paolo II e con il principio con cui i medici si laureano e che non dovrebbero mai dimenticare che recita: «Primum non nocere».

 

Giuseppe Maria Pigliucci

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