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Tareq Aziz: battaglia contro una condanna annunciata

In Italia impegno bipartisan per un processo equo e trasparente. A Bagdad il vice di Saddam alla sbarra.

Il 29 aprile si è aperto a Baghdad il processo a Tareq Aziz, numero due del regime guidato per decenni da Saddam Hussein. Ai tempi della sua consegna alle autorità militari degli Usa, avvenuta il 24 aprile 2003, Tareq Aziz figurava al numero 43 nella lista dei 55 super-ricercati del Pentagono e nel "mazzo di carte" dei latitanti era stato classificato come l'8 di picche. L’ex Vice primo ministro, unico esponente cristiano nella nomenklatura del deposto regime, è accusato di aver fatto condannare a morte una trentina di commercianti incriminati per aver speculato sull'aumento dei prezzi di generi di prima necessità durante il periodo di embargo tra il 1991 ed il 2003.

Per Tareq Aziz la pena capitale è subito apparsa inevitabile, viste le molte analogie col processo a Saddam: ad esempio, presiede il processo il giudice curdo Rauf Rasheed Abdel, lo stesso che pronunciò la condanna per l’ex dittatore.

Ovviamente tutto questo ha provocato una mobilitazione internazionale da parte di politici, premi Nobel e personalità di tutto il mondo che, non solo si schierano contro la pena di morte in generale, ma difendono anche la figura di Aziz, distinguendola da quella di Saddam Hussein.

Rispetto al raìs, infatti, il giornalista iracheno diventato suo vice, s’è sempre distinto come il "volto presentabile" del regime, tanto che nel 1984 venne ricevuto alla Casa Bianca dall’allora presidente Ronald Reagan. Come unico cristiano, inoltre, Tareq Aziz risulta una importantissima figura di riconciliazione religiosa. In passato i suoi rapporti con il Vaticano sono stati buoni, al punto che, a poco più di un mese dall’inizio della guerra in Iraq, nel febbraio del 2003, venne accolto da Giovanni Paolo II, a cui assicurò “l’intenzione del governo iracheno di cooperare con la comunità internazionale, in particolare sul disarmo”.

In questa lotta per il rispetto della Giustizia internazionale e dei diritti umani, l’Italia, anche a seguito della sua straordinaria vittoria della Risoluzione sulla "Moratoria Universale della pena di morte", approvata dall'Assemblea Generale dell'ONU il 18 dicembre 2007, continua a dimostrarsi uno dei Paesi più attivi ed impegnati. Questo perché, di fronte a questi temi, vengono finalmente superate tutte le divisioni ideologiche ed abbandonati gli spiriti settari: centinaia di personalità e di Parlamentari di tutti gli schieramenti politici, hanno sostenuto l'Appello, lanciato dall’esponente radicale Marco Pannella, per la "Moratoria della pena di morte anche per Tareq Aziz".

Nel testo dell’appello si legge che questa iniziativa non è “un ‘mero’ atto umanitario», ma ha «un preciso, concreto e puntuale obiettivo politico: la difesa del diritto e della verità, della legalità e della giustizia in Iraq. Evitare la condanna a morte e l'esecuzione di Tareq Aziz, che rischiano di avvenire senza che vi sia stato un processo degno di questo nome, potrebbe segnare una evidente soluzione di continuità rispetto a metodi e pratiche in voga ai tempi di Saddam”.

Questo appello è stato inizialmente associato ad uno sciopero della fame, su iniziativa del partito Radicale e dell’Associazione “Nessuno tocchi Caino” iniziato il 6 luglio 2008 e terminato il 12 agosto quando, secondo l’ex onorevole Pannella, “gli obiettivi che avevano portato l'urgenza della lotta nonviolenta sono stati in realtà raggiunti. Quando abbiamo resuscitato - ha continuato Pannella - il nome di Tarek Aziz, si trattava di un nome e di una persona sepolta nell'inesistenza, dopo la serie di decenni nei quali come principale collaboratore del dittatore Saddam Hussein rappresentava l'abito perbene di quel regime. Oggi sappiamo innanzitutto che abbiamo esorcizzato la possibilità di una messa a morte rapidissima, via processo lampo con un tribunale speciale di nomina governativa”.

Tuttavia, nonostante gli effetti positivi della mobilitazione internazionale, rimangono ancora molti ostacoli da superare affinché si possa ritenere con sicurezza che Tareq Aziz abbia un giusto processo: finora gli è stata negata ogni garanzia processuale: il suo avvocato iracheno, Badie Arief Izzat, è stato espulso e gli è stato interdetto di soggiornare in Iraq. La sua colpa è quella d’aver denunciato alla stampa internazionale il mancato rispetto dei protocolli internazionali, la corruzione di alcuni funzionari e le menzogne del governo iracheno. Anche la famiglia del legale è stata ugualmente costretta a lasciare il paese per paura di ritorsioni.

Inoltre, nonostante più di 150 avvocati da tutto il mondo abbiano presentato dossiers al Ministero della giustizia iracheno a difesa dell’ex braccio destro di Saddam, è stato impedito a chiunque altro di entrare nel processo. Il portavoce del Tribunale ha giustificato questa situazione, annunciando la volontà di Aziz di difendersi da solo, ma sono in molti, tra cui gli stessi familiari dell’ex vice primo ministro, a dubitare della spontaneità di questa decisione.

Proprio per analizzare questo caso e presentarlo all’attenzione dell’opinione pubblica , si è tenuta il 30 luglio scorso una tavola rotonda dal titolo "Giustizia penale internazionale e caso Tareq Aziz". L’evento, promosso dall’organizzazione "Non c’è pace senza giustizia" e dal Partito radicale, ha visto come relatori studiosi, politici e attivisti di ogni schieramento: i radicali Marco Pannella ed Emma Bonino (in collegamento telefonico); il sindaco di Roma, Gianni Alemanno; l’ex ministro degli interni, Giuliano Amato; Antonio Cassese, già presidente del tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia; Giovanni Conso, presidente della conferenza diplomatica che ha istituito la Corte penale internazionale; i rappresentanti di "Non c’è pace senza giustizia" Gianfranco Dell’Alba e Sergio Stamani; e Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia.

Antonio Cassese nel suo intervento ha sottolineato che “in Iraq non solo la giustizia è quella di vincitori, perché si processano solo i vinti, ma non è nemmeno amministrata in modo equo. È amministrata - aggiunge il docente di diritto internazionale - in un modo infame, che calpesta i diritti della difesa e non dà pubblicità agli atti processuali”.

Tutto ciò risulta ancora più ingiusto se si pensa a casi analoghi come quello dell’ ex leader serbo-bosniaco Radovan Karadzic, dell’ ex vicepresidente della Repubblica democratica del Congo, Jean Pierre Bemba, e al presidente in carica della Repubblica del Sudan, Omar Al-Bashir. Tutti e tre sono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità (per Al-Bashir e Karadzic anche di genocidio), ma non rischiano la pena di morte perché a giudicarli saranno proprio tribunali internazionali. Secondo Giuliano Amato questa circostanza evidenzia la pressante necessità che “la Corte penale internazionale affermi una giurisdizione internazionale stabile, ordinaria, non speciale e "ad hoc", su particolari crimini”.

Inoltre a prescindere dalle ragioni di equità, ci sono anche ragioni politiche per cui è fondamentale che il processo segua tutte le norme internazionali: “avere una condanna trasparente per Tareq Aziz, preservandolo dalla pena di morte, può essere – ha detto Alemanno - un segnale potente per il Medio Oriente. In questo modo la comunità internazionale può far capire che c’è la volontà di portare l’area fuori da logiche di conflitto assoluto” .

Insomma, la vicenda è ancora aperta e dall’esito dubbio, ma una cosa è certa: riuscire ad evitare la condanna sommaria di Tareq Aziz sarebbe veramente una passo avanti dell’ intera comunità internazionale verso un sistema che garantisca “Giustizia, ma nel rispetto dei diritti umani e della dignità della persona”, come ha chiesto l’arcivescovo di Kirkuk, mons. Louis Sako, caldeo, come Tareq Aziz.

Sembra che il segreto per vincere questa battaglia sia semplicemente superare divisioni ed antiche contrapposizioni per raggiungere obiettivi comuni.

 

Libera Cavaliere

 

 

  

 

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