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In ricordo di Fabio De Priamo

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOL'avvocato Colangeli ricorda l'amico e collega scomparso prematuramente.L'immagine di Fabio che riappare più frequente è quella della sua risata sorniona, quasi una spia dell'umorismo universale che lo animava; sapeva commentare ogni avvenimento prendendone immediatamente l'aspetto comico, e in questo si esprimeva con la massima sintesi la sua intelligenza luminosa. Abbiamo trascorso alcuni anni vedendoci tutti i giorni, tra lo studio, il tribunale e qualche trattoria alla buona; i fatti della vita e delle vicende giudiziarie che davano spunto di riflessione erano innumerevoli, e nella varietà delle forme e dei caratteri di questa commedia umana emergeva spesso il lato paradossale, quella punta di contraddizione che i comportamenti delle persone si portano dietro. Qui interveniva quella sintesi logica di cui parlavo sopra, e Fabio la fissava con un processo verbale fenomenale: il tormentone. Negli anni passati insieme ne sono nati a decine; lui, io e gli altri amici della nostra generazione universitaria e poi forense, potevamo disporre di un immenso repertorio cui attingere in ogni momento; perché poi i vizi, le contraddizioni, i tic, i rituali nevrotici della gente sono piuttosto ripetitivi, quindi tornano con altri protagonisti ma sono quelli. Capitava allora che un testimone di cui si assisteva alla performance dibattimentale ti ricordasse, nei modi o nel parlato, un cliente, o un avvocato, o un giudice, che avevi notato anni prima traendone un tormentone, e via allora ripetere frasi paradossali e immaginare una contro-scena rispetto a quella di cui eri spettatore. Si poteva andare avanti per minuti, creando piccole sceneggiature dove i personaggi erano a metà tra macchiette alla Totò, cliché tramandati del mondo giudiziario (l'avvocato trombone e retorico, il pubblico ministero acido e permaloso, il giudice indolente e scettico), e loschi figuri del crimine romanesco. Questo suo essere serafico e acutamente ironico faceva di Fabio un uomo genuinamente romano: la vera essenza della romanità, fatta di spirito corrosivo ma tollerante, si fondeva in lui col profondo orgoglio di appartenere alla nostra città. Aldilà della passione calcistica per il giallo e rosso, Fabio sentiva per Roma l'adorazione e il culto di chi ne concepisce la tradizione storica e culturale come una missione ancora viva, e ciò di certo gli proveniva dalla formazione rigorosa impartitagli dalla famiglia. Ma ora è il caso che io ricordi la vera perla tra i tanti suoi pregi: l'onestà intellettuale. Sono stato colpito, al suo funerale, dall'insistenza con cui il sacerdote che officiava il rito ha sottolineato questo aspetto del suo carattere; evidentemente, mi sono detto, lo aveva conosciuto bene. È così; Fabio aveva idee personali su tutto ciò di cui s'interessava, aveva linee-guida e forti convincimenti sui rapporti sociali, sul lavoro, sulla politica, sull'amicizia e la famiglia; ma al tempo stesso sapeva ascoltare le voci diverse. Il modo con cui esaminava i temi degni di discussione con gli altri era sempre attento a tutte le componenti della questione, non si fermava al primo giudizio scaturito dalla "pancia". Voleva, e pretendeva, da se stesso le ragioni complete del perché di un'opinione. Qui forse sta il segreto del suo talento di avvocato; la capacità, questa da vero fuoriclasse, di sceverare da un problema tutte le angolature, anche le meno percettibili, e di disporre quindi del materiale più completo per l'argomentazione. Una volta, ricordo, eravamo in un processo molto delicato, dai risvolti tecnici difficili ma anche caratterizzato da una mole di atti tremenda; lui stava discutendo, e la sua arringa era ancora a metà, sebbene iniziata da più di un'ora. A un certo punto una nostra collega, avvicinatasi al cancelliere per depositare un documento, percepì il giudice a latere sussurrare al presidente "questo s'è studiato tutto!". Dirlo così sembra ovvio, ma chi frequenta i tribunali penali, ed è avvezzo all'oralità, sa cosa intendo; è difficile che una discussione orale contenga e condensi tutto il materiale di un grosso processo con la massima compiutezza e la massima sintesi. Questo accadeva a lui con naturalezza, perché era abituato (come andare in bicicletta per un bambino) all'analisi delle diverse prospettive. Non sapendo mentirsi, si sentiva in dovere di rendere conto all'interlocutore delle, anche marginali, incongruenze della sua tesi, e anzi di evidenziarle; ciò però lo rendeva più credibile sui punti decisivi del suo discorso. Ho sempre pensato che sarebbe stato un ottimo giudicante proprio per questi motivi, ed è così che aveva successo col giudice bravo: gli assomigliava. Ancora mi torna in mente che queste capacità di rigore intellettuale le aveva apprese in famiglia, le ho riviste spesso nei suoi fratelli, impegnati in altri campi della cultura ma con brillantezza simile; poi le aveva coltivate bene all'università, dove per molti anni fu un assistente prezioso nella cura degli allievi. Fu in quella veste che lo vidi le prime volte, quando ancora ero un laureando e lui fresco assistente di procedura penale; seguiva nella tesi un comune e caro amico, ma mi capitò di chiedergli anch'io consigli un paio di volte, in istituto: era disponibile e generoso nell'attenzione, e chiaro e rassicurante nella spiegazione. Tante altre volte lo avrei visto fare così durante gli esami, in facoltà, dove interrogavamo spesso insieme, o in studio, dove i tesisti talvolta venivano, con i loro scritti, a sottoporci l' "avanzamento lavori". Un altro aspetto della sua personalità era la modestia, l'umiltà. Mai remissivo verso i forti, era però schivo alla ribalta, non incline alla vanteria; due cose forse odiava più di ogni altra: la vanagloria e il narcisismo, vizi peraltro abbondanti nel mondo giudiziario-forense. Dei tormentoni di cui raccontavo all'inizio, numerosi erano quelli dedicati alla cialtroneria dei vanesi: l'avvocato che ad alta voce racconta i suoi successi, veri o presunti, nel bar del tribunale; il pubblico ministero che condisce la sua requisitoria di colorature letterarie, meglio se latine; il collega che annuncia, con fare guascone, che in udienza dirà "cose terribili". A queste icone della vanagloria Fabio si contrapponeva con quell'ironia lieve, ma ficcante, sopra ricordata: magari al collega che narrava, pieno di sé, di aver parlato col giudice di una data questione, era capace di dire con nonchalance: "ti ha trattato male?", così smontandolo inesorabilmente dal piedistallo. Questa capacità di dare valore alla propria vita, e alla propria professione, con la coerenza dei doveri e la leggerezza dello spirito, ha fatto di Fabio un campione della giustizia. Quelli come lui, con capacità così elevate, saranno sempre pochi, per forza, ma è la sua formazione onesta e franca che dobbiamo sperare di vedere più spesso nelle giovani generazioni, prima di tutto di uomini e poi di giuristi. Sembra incredibile che un "ragazzo" di nemmeno 48 anni abbia compiuto tanti piccoli miracoli di correttezza, verso sé e verso il mondo, con tanta semplicità. Sembra incredibile che Fabio, con la sua Fiammetta, non potrà vedere i suoi figli diventare adulti, e questo è l'aspetto più ingiusto del suo destino. Divenuti padre per la prima volta in tempi ravvicinati, ci raccontavamo le sensazioni che ci davano i nostri primogeniti ancora piccoli, quando la sera si tornava a casa dal lavoro, e il commento finale era: "... ed è gratis!"; come a dire che la massima gioia, nella vita, te la dà una cosa che non si paga. Fabio è stato un uomo integro. Non potrà essere dimenticato.

Giorgio Colangeli

*Avvocato del Foro di Roma

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