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Carceri

Visita al carcere di Salerno: dietro i detenuti ci sarebbero persone in cerca di una nuova vita

La testimonianza di Massimo Reboa della visita al carcere di Salerno

Una breve fuga dalla Scuola Estiva Luca Coscioni. Dove fuggo? In carcere! Ho approfittato al volo dell'occasione di assistere l'On. Rita Bernardini e l'avvocato Gian Domenico Caiazza alla visita ispettiva al carcere di Salerno–Fuorni. Il direttore ci ha presentato immediatamente come la situazione dei detenuti sia drammatica, ma questo lo sapevamo già. Spesso ci si scorda che la carcerazione dovrebbe avere anzitutto una funzione rieducativa e non solo di punizione. Che senso avrebbe infatti rimettere in libertà una persona che, avendo anche scontato la pena ma non essendo ancora pronta a stare in società, è pronta a commettere l'indomani un altro reato? Lo si scorda perché così siamo abituati in Italia: il programma di reinserimento le carceri lo fanno, ma nella malavita. Gli spazi sono insufficienti sia per la detenzione che per la socializzazione, per non parlare delle 8000 unità che mancano alla polizia penitenziaria, a cui si aggiungono le richieste di distaccamento e gli incarichi non prettamente legati alla carcerazione. A Salerno, ad esempio, lo spazio ci sarebbe pure, ma mancano 7 agenti per aprire un altro piano, che attualmente è inutilizzato! Il rispetto della dignità del detenuto dovrebbe essere il primo passo per far capire al detenuto stesso quale sia il valore della libertà (che si realizza nella reciprocità) propria, di quella degli altri e della necessità conseguente di rispettare la legge per arrivare ad una civile convivenza all'interno della comunità. Dignità che è esaltata nei servizi igienici, dove abbiamo trovato le pentole al fianco dei water e dove, nel reparto femminile, ci sono bagni a vista! Insomma si chiede di cambiare stile di vita a persone chiuse nella noia 20 ore al giorno in una cella di 20 mq (se la cella è piena, 8 persone, si arriva anche a 2,5 mq a persona!). In queste condizioni l'unico obbiettivo può essere uscire dal carcere per riprendere a fare il vecchio lavoro. E' quello che ha raccontato un carcerato, che ha anche avuto una parte nel film "Gomorra": "Cosa farai quando uscirai?" "Rubo macchine, io quello so fare." "Ma non vuoi fare un mestiere, hai fatto anche un film..." "Posso fare l'attore, quello che ruba macchine!" Qualcuno ci ha detto anche di ascoltare Radio Radicale, che trasmette l'unico programma dedicato ai detenuti e alle loro testimonianze, Radio Carcere. Il carcere non è certo un bell'ambiente in nessun paese, e spesso viene incarcerato preventivamente anche chi non è stato condannato in via definitiva: da un lato questo è necessario anche a causa delle condizioni del territorio (è più sicuro stare in carcere che fuori), dall'altro chi non fosse effettivamente un criminale frequentando il carcere sicuramente lo diventa. Fatto sta che la metà dei detenuti è dentro in carcerazione preventiva, quindi una parte del problema del sovraffollamento è direttamente collegato alla lentezza del sistema penale. Il carcere si occupa anche di situazioni variamente problematiche quali la tossicodipendenza e la sieropositività, per le quali c'è forte impreparazione e mancanza di mezzi: ad esempio a Salerno a curare ben 80 tossicodipendenti avevano solo 2 psicologi per 25 ore al mese, palesemente insufficienti. I programmi di reinserimento, che dovrebbero essere il mezzo per rendere efficace la pena e riabilitare alla vita da cittadino libero, sono praticamente un miraggio. Il direttore ci ha detto che lui organizzerebbe laboratori con 6-7 detenuti e un tappezziere o un impaglia sedie, ma naturalmente non ci sono fondi! Oltretutto, l'efficacia di questi programmi è sempre da mettere in relazione al territorio in cui si opera, ci ricorda il direttore: ci sono zone a Napoli (ad esempio le famigerate "Vele" di Scampia) dove è lo Stato ad essere latitante. Lì il recupero della persona dovrebbe essere preceduto dal recupero del territorio. Valutando quanto ho visto in questa mia visita, sarebbe giusto dare una medaglia ai detenuti che non ricadono nel vortice della criminalità, in aggiunta al risarcimento dovuto per la pena ulteriore che subiscono e alla quale non sono condannati. Per questo secondo punto i Radicali si stanno già mobilitando.

http://politicainrete.it/forum/altri-partiti-italiani/radicali-italiani/31362-carcere-fame-di-giustizia-5.html


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Corsi professionali per detenuti a Rebibbia

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLODopo la positiva sperimentazione dell'anno passato, l’istituto penitenziario di Rebibbia si è reso disponibile a ripetere i corsi professionali per i detenuti sul tema dell'assistenza per i disabili.

Il progetto è stato ideato dal Consigliere delegato del Sindaco per l'handicap, Ileana Argentin, ed ha lo scopo di creare tra i detenuti professionalità in grado di intervenire a favore dei disabili sia all’interno del carcere che fuori dalla struttura penitenziaria.

I corsi saranno tenuti da educatori, psicologi, architetti ed avvocati.


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La morte del carcere

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOCi giunge la notizia della morte del trentaduenne Simone La Penna, tossicodipendente e anoressico (secondo quanto si apprende da fonti interne al carcere), avvenuta nel carcere romano di Regina Coeli, mentre ancora attendiamo l’esito dell’indagine della Procura della Repubblica per la morte di un altro giovane, Stefano Cucchi, deceduto all’Ospedale Pertini di Roma lo scorso 22 ottobre.

Stefano Cucchi viene arrestato dai Carabinieri il 15 ottobre perché in possesso di sostanze stupefacenti. Passa quindi la notte nella cella di sicurezza della caserma dei Carabinieri per essere trasferito il giorno dopo in quella del Palazzo di giustizia, dove, secondo la testimonianza di un altro detenuto, avrebbe subito quelle violenze che ne hanno compromesso l’integrità fisica. Il Cucchi, tradotto nel carcere di Regina Coeli, lamenta subito problemi di salute e viene quindi trasferito nel reparto di sicurezza dell’Ospedale Pertini, dove deperisce giorno per giorno fino al decesso avvenuto il 22 ottobre. L’inchiesta, nonostante l’attenzione mediatica, ha mostrato da subito un’andatura incerta e contraddittoria, con una prima autopsia che non ha chiarito i dubbi sorti davanti alle foto del corpo di Stefano Cucchi, orrendamente deformato, e con le prime dichiarazioni rilasciate da agenti penitenziari, carabinieri e compagni di cella del giovane non del tutto convergenti.

Per cui la Procura ha disposto la riesumazione del cadavere e una seconda autopsia che dovrà far luce sul caso. Anche perché in un primo momento era stata apparecchiata una versione dei fatti che legava la morte ad una pregressa situazione patologica del giovane, definito come tossicodipendente, sieropositivo, anoressico, insomma una larva umana a cui poteva essere fatale anche una caduta dalle scale, la tipica motivazione da giallo televisivo che anche lì cade immancabilmente. Ma questa volta probabilmente il caso era talmente eclatante che metteva in evidenza come il problema carcere interessi potenzialmente tutti. Infatti nell’immaginario collettivo il carcere è riservato ai “delinquenti”, ma il nostro Cucchi aveva solo 20 grammi di droga. La sproporzione tra quanto commesso e la pena ricevuta, ossia di fatto la morte, è evidente e ci ricorda che il carcere non dovrebbe stare solo dentro le sue mura ma uscirne anche fuori, perché è un problema che riguarda tutto il paese e quindi tutti noi. Tanti carcerati hanno fatto scioperi della fame o altre proteste fino ad arrivare ai casi più tragici dove la disperazione è diventata suicidio, come per la brigatista Blefari Melazzi, o dove non si è riusciti a spiegare la morte. Quest’ultimo è il caso Cucchi; che però è stato l’unico nel suo genere ad aver la forza di emergere tra l’opinione pubblica. Se non bisogna dimenticare che in carcere si va solo se si viola la legge e quindi la carcerazione rappresenta corrispettivo per il male arrecato alla società e mezzo di dissuasione dal commettere crimini, è anche vero che una pena sproporzionata a quanto commesso, tempi della giustizia eccessivamente lunghi, sovraffollamento delle carceri, l’assoluta carenza di strutture di reinserimento generano sentimenti di frustrazione, la percezione di subire un’ingiustizia, ingiustizia alla quale non sono mai stati condannati. Certamente questo non è il clima ideale per procedere a quella rieducazione che prevede la nostra Costituzione al suo articolo 27 né tanto meno per il rispetto del senso di umanità previsto sempre nello stesso articolo. Un tale clima coinvolge tutti gli operatori delle carceri, che tante volte hanno protestato a fianco dei detenuti, e nei casi più estremi è terreno fertile su cui si coltivano storie come quella di Cucchi. Caratteri comuni sembrano riproporsi in queste storie, e un esempio è l’altra morte di carcere, quella di Simone La Penna: c’è infatti la tossicodipendenza, ci sono difficoltà psicologiche, c’è la protesta per essere visitati da un medico, per incontrare i legali, per essere sentiti dal magistrato, c’è una fragilità di fondo, una debolezza che accomuna tanti casi. C’è, insomma, l’ansia e la difficoltà dei più deboli di veder garantita la propria persona, ma troppo spesso sono le deficienze dello stato, e non le colpe dei detenuti, a porsi come limite alla garanzia dei diritti dei singoli e del diritto dello stato. Che fosse la volta che i cittadini prendano consapevolezza dello stato del nostro sistema penitenziario?

Dopo le recenti morti in carcere, è tempo di rivedere questa istituzione nella coscienza comune?

 

Massimo Reboa


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Carceri nel Lazio: prosegue il dibattito in Aula

La situazione che ha portato a due mozioni miranti a migliorare la situazione delle carceri nella regione Lazio, una sottoscritta da tutti gli esponenti del centrosinistra e da Salvatore Bonadonna (PRC), l’altra firmata da Francesco Giro (Forza Italia) e da altri esponenti del centrodestra, sembra si stia risolvendo attraverso l’unificazione degli atti, peraltro in parte coincidenti.

La situazione che ha portato a due mozioni miranti a migliorare la situazione delle carceri nella regione Lazio, una sottoscritta da tutti gli esponenti del centrosinistra e da Salvatore Bonadonna (PRC), l’altra firmata da Francesco Giro (Forza Italia) e da altri esponenti del centrodestra, sembra si stia risolvendo attraverso l’unificazione degli atti, peraltro in parte coincidenti.

Angiolo Marroni, Garante dei Detenuti, ha spiegato però che nell’esercizio delle funzioni di Garante ha meno diritto di accesso nelle carceri di quanto ne abbia come consigliere regionale, una questione «paradossale» che compete al Ministero di Giustizia.

I dati dei detenuti nel territorio laziale sono notevoli: ben 5.756 i reclusi su un totale nazionale di 56.532, con una percentuale di poco più del 10 per cento rispetto al dato nazionale; di questi 5.343 sono uomini e 413 donne, sia condannati che in attesa di giudizio, distribuiti in massima parte nelle strutture romane di Regina Coeli e di Rebibbia, quindi Cassino, Civitavecchia, Frosinone, Latina, Paliano, Rieti, Velletri e Viterbo.

 


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La solitudine di Caino

Monsignor Guerino di Tora, Direttore della Caritas Diocesana di Roma

L’impegno della Caritas nei carceri di Roma. Intervista a Monsignor Guerino Di Tora, Direttore della Caritas Diocesana di Roma.

 

E’noto l’impegno civile della città di Roma nei confronti dei deboli e degli emarginati, compresi i detenuti. La realtà carceraria si sta però trasformando con quella stessa velocità che caratterizza la nostra vita sociale ed economica, così che cambiamenti tanto rapidi trovano nella nostra amministrazione, ma anche nella nostra società, risposte inadeguate.

L’attuale situazione vede così la popolazione detenuta, per la stragrande maggioranza, appartenente alle componenti deboli e svantaggiate della nostra società.

La situazione dei detenuti è drammatica, caratterizzata dal sovraffollamento, dalla mancanza di cure per chi è malato, da carenza di personale educativo e sociale, dalla mancata applicazione delle misure alternative dovuta a motivi economici. In tale precarietà, molto spesso, il carcere si configura come un mero contenitore di numeri dove scontare una pena che abbrutisce e abbandona a se stesse le persone.

Su questo desolante scenario ha espresso alcune considerazioni Monsignor Guerino Di Tora, Direttore della Caritas Diocesana di Roma.

D) Quali sono i servizi che la Caritas Diocesana di Roma offre ai detenuti?

R) La Caritas opera all’interno del carcere di Rebibbia tramite l’associazione VIC (Volontari in Carcere), un gruppo di circa 100 persone che fornisce assistenza tanto materiale quanto spirituale ai detenuti. Si cerca innanzi tutto di risolvere disagi pratici; molte persone infatti, arrivano in carcere solamente con gli abiti che hanno addosso, senza un cambio e senza la possibilità che parenti o amici possano procurargliene. I nostri volontari forniscono dunque beni di prima necessità quali vestiti, prodotti per l’igiene personale, sussidi in denaro ecc. per rendere materialmente meno traumatico il loro arrivo.

Altro impegno dell’Associazione è di tipo “culturale” e consta nel fornire sempre buone letture ai carcerati.

Periodicamente viene ad esempio distribuita la rivista Famiglia Cristiana.

A non mancare mai poi, è l’accoglienza di un sacerdote che può confortare la persona e poi seguirla nel suo “percorso” con ripetute visite.

D) La prima immagine che si associa alla realtà carceraria è quella dell’isolamento: all’allontanamento fisico però, segue anche l’espulsione dalla sfera degli affetti e poi, all’espiazione della colpa, l’emarginazione. Il detenuto dunque, è anche una persona con un carico di sofferenza...

R) L’esclusione e l’emarginazione sono purtroppo la conseguenza diretta e dolorosa dell’esperienza carceraria.

L’isolamento, nonostante le molte leggi approvate in materia, è la condizione che caratterizza non solo la reclusione ma anche il reinserimento nella società una volta scontato il debito con la giustizia. Di qui l’impegno dei nostri volontari nel tentare di alleviare questo senso di solitudine e abbandono tramite ripetute visite ai detenuti per portare una parola di speranza a persone comunque sofferenti. Bisogna ricordarsi infatti, che molti in carcere assistono impotenti al deteriorarsi dei loro legami con famigliari e amici e tendono a chiudersi sempre più in se stessi.

Oltre che tramite il canale delle visite i volontari entrano in contatto con i carcerati attraverso i centri di ascolto e l’organizzazione di attività di vario genere.

Queste vanno dal religioso al ricreativo, dall’accompagnamento individuale, alla formazione permanente.

L’impegno della Caritas però, muove anche in un’altra direzione e cioè verso una più profonda sensibilizzazione della società ai problemi del mondo carcerario e, all’interno di questa, della comunità cristiana, stimolata soprattutto tramite incontri.

 

 

Francesca Magni

 

 

 


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