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Diritti

Giustizia: firmato decreto su sicurezza e salute carceri

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOIl Ministro Andrea Orlando ha firmato il decreto ministeriale che regola le disposizioni in materia di sicurezza e salute dei luoghi di lavoro nell'ambito delle strutture di competenza amministrativa del ministero della Giustizia. L'intervento normativo a tutela dei lavoratori rientra nel quadro delle iniziative volte al miglioramento delle condizioni del sistema penitenziario e si inserisce nel quadro del sistema di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (Testo Unico 81/2008) e ne integra le disposizioni per adattarle alle peculiarità delle attività svolte nelle strutture giudiziarie e penitenziarie connotate da particolari esigenze di riservatezza e sicurezza. In particolare, sono individuate le misure strutturali e organizzative dirette a garantire la sicurezza nell'ambito dell'attività giudiziaria e penitenziaria con modalità compatibili con la normativa di sicurezza e salute applicabile agli altri luoghi di lavoro. Il regolamento prevede anche un servizio di vigilanza ispettiva sulla applicazione della normativa in materia di sicurezza e salute nei luoghi e nelle strutture di lavoro in cui hanno sede gli uffici del Ministero della Giustizia. Il Guardasigilli ha richiesto il concerto dei ministri del Lavoro, della Salute e della Pubblica Amministrazione.


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Diritti, rovesci, doveri

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOE' mio diritto. Quante volte sentiamo ripetere questa frase? E noi avvocati molto più degli altri, specialmente dai clienti che si sentono lesi nelle loro ragioni, aspettative, pretese. Negli atti civili, dopo avere enunciato il fatto, esponiamo le ragioni di diritto. Nel penale si chiede che venga applicato correttamente (ergo, a favore del nostro postulante). Possiamo risalire alle origini del diritto romano per vedere che, almeno questo schema, non è mutato: Da mihi factum, dabo tibi ius. Da quando si è imposto, appunto, lo Stato di diritto, la sfera delle situazioni giuridiche soggettive si è allargata, per non dire dilatata. Il loro riconoscimento e la loro tutela passano dal Codice di Napoleone che, all'articolo uno, ci dice che "Qualunque Italiano gode dei diritti civili." Traduzione forse non impeccabile ma efficace del francese Tout Français jouira des droits civils. Il contenuto dei diritti si è modificato per alcuni di essi, valga per tutti, come esempio, la proprietà che, definita come il diritto di godere e disporre di un bene nella maniera più assoluta, vede oggi i limiti previsti già nella costituzione. Ma, a fronte di alcune rivisitazioni, i concetti di base sono gli stessi, basati sul principio (ancora) dello Stato di Diritto, dove la salvaguardia delle libertà dell'uomo assume un valore dominante e predominante. Non vuole essere questo intervento, però, una lezione, o ripasso di concetti che, per un operatore del diritto (di nuovo!) si presumono acquisiti. Basta ricordare con le parole di Santoro Passarelli che, laddove al singolo venga riconosciuto un diretto potere per la realizzazione di un suo interesse, si può individuare un diritto soggettivo. Non dilunghiamoci ora a distinguere quelli relativi da quelli assoluti, i reali, i patrimoniali, i potestativi. Sono solo categorie accademiche. Quello che, onestamente, risalta è l'aumento esponenziale dei diritti. Non che ciò sia un male (anzi), ma l'elenco sembra si stia allargando a dismisura e, probabilmente, genera delle incertezze e difformità non solo nella applicazione nelle aule di giustizia (e meno male, altrimenti noi avvocati come potremmo vivere?), ma anche nella loro accezione concreta, ripercuotendosi su piani sociali e politici. Diritto alla casa, diritto allo studio, diritto al lavoro, diritto alla privacy, diritto alla salute, diritto all'ambiente, diritto all'acqua, diritto di sciopero, sono solo alcuni fra in più in voga oltre che sui testi universitari anche sulla stampa (che ne fornisce spesso un'interpretazione poco chiara) e nelle piazze, dove ci si riunisce per esercitare i diritti a manifestare il pensiero e a protestare, previo accertarsi del libero diritto di associazione, salvo poi non volere essere ripresi dalle telecamere per tutelare il proprio diritto alla privacy (che sarebbe più opportuno ricordare che nel nostro ordinamento è meglio e più correttamente definita tutela dei dati personali sensibili, ma di questo riparleremo. Vogliamo poi menzionare il diritto di recesso nei contratti e quello di accesso agli atti delle pubbliche amministrazioni? Oggi uno dei più insigni giuristi che abbiamo in Italia è andato oltre in un suo libro che, non a caso, ha intitolato Il diritto di avere diritti. Stefano Rodotà è sempre stato paladino in tal senso, oltre che attento osservatore della realtà, e oltre a quelli più noti, indica, tra gli altri, il diritto all'oblio che, chi scrive, ritiene debba essere tutelato completamente. Ma Rodotà parla anche di diritti dell'identità, del post mortem e, preso atto di come la realtà virtuale e la rete web stiano cambiando il mondo, di tutti gli aspetti connessi alle tecnologie. Ma che cosa deve intendersi come diritto? O meglio: quale è il concetto, e di conseguenza il limite, di ciascun diritto? Il diritto al lavoro viene interpretato come diritto "al posto di lavoro" e talvolta il diritto "a quel posto di lavoro". Così come il diritto allo studio è stato spesso visto come il diritto "al titolo di studio." E il diritto al cibo ha avuto dilatazioni abnormi nei casi delle cosiddette spese proletarie e quello alla casa nelle occupazioni di immobili vuoti. Ma siamo tutti pronti a censurare chi abusi del proprio diritto, specialmente se portatore di una divisa o titolare di un qualsiasi potere: da quello dell'impiegato o di un insegnante, fino ai genitori. Per non parlare del diritto alla privacy che, secondo non pochi, riguarda anche tutti gli aspetti della vita familiare, domestica, la targa dell'auto, quello che il vicino può vedere dal balcone e così via. E si sente parlare anche di diritto al parcheggio, inteso non come posto auto all'interno di un condominio, bensì ad uno spazio nei centri storici e vicino alla propria abitazione. E' il momento di fermarsi e ricordarsi per un attimo che, non solo a livello terminologico, a fronte di un diritto, posizione tutelata e di supremazia, vi deve essere anche una posizione di soggezione che permetta a quella prevalente di trovare il proprio riconoscimento e la relativa tutela. Davanti ad un diritto vi è un dovere. Banale, ma spesso dimenticato. E se alcuni doveri si sostanziano in un semplice permettere agli altri di godere del loro status tutelato, sono a loro volta numerosi i diritti che impongono un comportamento non meramente passivo da parte degli altri. Altri che sono non solo privati ma anche, spesso, lo Stato, passando dagli enti intermedi. Insomma l'altra faccia della medaglia o, se vogliamo, l'insieme di elementi che portano alla costruzione di un diritto. Ergo, una categoria non solo sacrosanta, ma essenziale in ogni società civile, è stata portata alle sue più estreme dilatazioni, dimenticandosi completamente di che cosa vi è di fronte al diritto e come per vedere il riconoscimento di una propria tutela sia necessaria la collaborazione di altri, a cominciare da se stessi. Non voglio certo agganciarmi a precetti quale il biblico "Non fare agli altri quello che non vorresti gli altri facessero a te," concetto che, peraltro, ritroviamo anche in Talete e, prima ancora, Pittaco, filoso di Mitilene, il quale enunciò un concetto che vorrei vedere applicato alle liti condominiali: "Non fare al tuo vicino quello che ti offenderebbe se fatto da lui". In sintesi non è certo un eufemismo affermare che, oggi, spesso, il diritto, viene interpretato come una assoluta pretesa, e come tale appunto, si pretende di tutelarla, rivolgendosi alla giustizia, talvolta a sproposito, ovvero si cerchi di farsela da soli. Non è intenzione fare moralismi, ma viene alla mente la frase fin troppo abusata di John Fitzgerald Kennedy "non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo paese", frase che, in Italia, specialmente in un momento politico come questo, delicato, peculiare e, si spera, irripetibile, possa essere riconsiderata e, magari, applicata . Rodotà parla del diritto di avere diritti. Siamo tutti d'accordo, ma forse è anche il momento di ricordarsi dei doveri.

Gianni Dell'Aiuto*

Avvocato del Foro di Roma


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Mantenimento dei minori

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOTra i doveri che ciascun genitore ha nei confronti della prole assume preminente rilievo quello al ''mantenimento''. Il concetto di mantenimento ha una portata molto ampia e si riferisce alla necessità di provvedere ''a una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario e sociale, nonché all'assistenza morale e materiale ed all'opportuna predisposizione di una stabile organizzazione domestica, idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione''. Tale obbligo, come tutti gli altri che caratterizzano la c.d. responsabilità genitoriale, trova il proprio fondamento nella procreazione stessa e non nella relazione tra i genitori. La conseguenza più chiara di tale considerazione è che se il matrimonio non si presenta quale fondamento della responsabilità genitoriale allora la stessa sussiste anche in presenza di prole "naturale" ed inoltre, cosa che in questa sede più interessa, il venir meno dell'affectio coniugalis o della convivenza more uxorio non riduce, né tanto meno elimina, la portata di tali obblighi. La potestà genitoriale stessa è qualificabile come diritto-dovere strumentale al corretto e costante adempimento degli obblighi verso i figli. Attraverso i provvedimenti di carattere economico, resi a favore dei figli, si vuole garantire la conservazione, per quanto possibile, delle abitudini e del precedente tenore di vita. Ciò che si vuole evitare al minore, invero, è lo stravolgimento della sua quotidianità a causa dell'improvviso sopravvenire della crisi tra i genitori. Fornire alla prole la certezza, nei limiti del realizzabile, di vivere ed attraversare serenamente la fase patologica in cui la propria famiglia incorre è l'obiettivo fondamentale che il legislatore, come qualsiasi altro operatore giuridico, deve porsi in via prioritaria. Questo discorso se è valido per ciò che concerne gli aspetti personali-morali dell'affidamento della prole lo è altrettanto per quelli più strettamente materiali-economici, ovvero per il mantenimento stesso. Giungere ad adottare la giusta soluzione richiede, ovviamente, un'attenta analisi delle peculiarità della fattispecie concreta portata innanzi all'autorità giudiziaria: ogni famiglia infatti è diversa tanto durante il sereno svolgimento della propria quotidianità quanto, e forse ancor di più, quando incontra difficoltà che la portano a sgretolarsi. Ponendo attenzione nello specifico a come la legge n. 54 del 2006 intervenga sull'art. 155 c.c. in merito al mantenimento della prole, infatti, risalta subito agli occhi la particolare rilevanza che si vuole garantire alle singole caratteristiche del caso concreto, soprattutto attraverso i cinque parametri elencati al comma IV° e destinati a realizzare al meglio il principio di proporzionalità nella partecipazione di ciascun genitore al mantenimento dei figli, come si prescrive nella famiglia unita ex art. 148 c.c., comma I°. Tanti dunque sono gli elementi che il giudice è chiamato a valutare per adottare la decisione opportuna anche perché, oltre a dover indicare l'entità del contributo posto a carico di ciascun genitore deve altresì determinare la modalità con cui tale dovere va adempiuto. (mantenimento diretto, ecc.). L'art. 155 c.c., comma IV°, si apre con il richiamo al reddito di ciascun genitore che la giurisprudenza prevalente ritiene implicitamente comprensivo del riferimento alla ''capacità di lavoro professionale e casalingo'' ex art. 148 c.c. Il riferimento al reddito, quindi, va inteso in senso ampio, ovvero come complessiva situazione economico reddituale delle parti le cui evoluzioni successive inoltre, in meglio o in peggio che siano, legittimano la proposizione di eventuali domande di revisione delle disposizioni precedentemente adottate. Il legislatore al comma VI° dell'art. 155 c.c. introduce il potere del giudice di disporre accertamenti da parte della polizia tributaria. Questi sono indubbiamente indirizzati a chiarire la situazione reddituale delle parti al fine di giungere effettivamente a garantire al minore il giusto contributo a carico di ciascun genitore. La giurisprudenza dominante è dell'orientamento che ''L'esercizio del potere di disporre indagini a mezzo della polizia tributaria sui redditi e sui beni dei genitori (...) ai fini del riconoscimento e della determinazione del contributo dovuto per il mantenimento dei figli, non costituisce infatti un dovere, imposto dalla semplice contestazione delle parti in ordine alle rispettive condizioni economiche, ma è rimesso alla discrezionalità del giudice di merito''. Chiaramente ogni documentazione, elemento e circostanza di qualsiasi genere merita di essere oggetto di attenzione da parte del giudice, al fine di ricostruire correttamente la situazione economico-reddituale delle parti. Per quanto riguarda i parametri fissati all'art. 155 c.c., comma IV°, quello indicato al numero 1 sembra assumere particolare rilievo proprio in considerazione del fatto che ciò che si vuole garantire al minore è la conservazione del precedente tenore di vita, come se la famiglia non avesse mai subito la crisi. Anche l'individuazione delle ''attuali esigenze'' dei figli rappresenta un parametro di fondamentale rilievo data nel tempo l'evoluzione delle stesse. I tribunali sono ormai da tempo dell'opinione costante ed univoca che le esigenze dei minori crescano con l'avanzare dell'età degli stessi, di tale circostanza non si richiede alcuna ''specifica dimostrazione'': la crescita legittima senza dubbio la presentazione di una domanda di revisione del mantenimento precedentemente disposto, la quale verrà accolta o rigettata sulla base, ovviamente, della nuova valutazione di tutti i parametri posti all'art. 155 c.c., comma IV°. Per quanto riguarda invece il ''tenore di vita goduto dal figlio'' durante la convivenza con i genitori è ovvio che tanti sono gli elementi che possono essere oggetto di valutazione finalizzati, appunto, a ricostruire correttamente lo stile di vita della famiglia fino al momento della disgregazione, così da consentire alla prole di mantenere le precedenti abitudini di vita senza vedersi stravolgere la propria quotidianità, cosa che rischierebbe di provocare grave pregiudizio alla sua crescita serena e corretta. Per quanto riguarda i parametri fissati ai punti n. 3 e 5 il legislatore sembra dare spazio agli altri modi con cui i genitori si occupano del soddisfacimento dei bisogni dei figli, ovvero modi più diretti e di diverso contenuto rispetto alla somministrazione periodica di denaro. Prendere in considerazione quanto tempo il minore trascorre con ciascun genitore e quantificare in termini economici i ''compiti domestici e di cura'' svolti dallo stesso significa dare rilievo alle medesime forme di contribuzione dei genitori al soddisfacimento dei bisogni giornalieri della prole che sono consuetudinarie ed addirittura ovvie nella famiglia unita. Il riferimento ulteriore alle ''risorse economiche di entrambi i genitori'' è indiscutibilmente necessario dato che ''il livello economico-sociale in cui si colloca la figura del genitore'' incide senza dubbio sulle valutazioni e decisioni del giudice, le stesse aspettative, esigenze e bisogni del minore si individuano anche in base alla richiamata posizione economica. La riforma del 2006 dà ampio spazio all'autonomia negoziale delle parti nell'organizzazione e gestione di ogni aspetto dell'affidamento della prole ma sempre ponendo quale fondamentale limite la salvaguardia del preminente ed esclusivo ''interesse morale e materiale della stessa''. L'importanza di lasciare spazio alla libertà negoziale dei genitori, seppur in modo ridotto e con meno spessore rispetto a quanto avviene quando nella crisi non è coinvolta la prole, permette di evidenziare nuovamente come il legislatore abbia voluto, per quanto possibile, garantire ai figli la conservazione di un ambiente sereno ed abitudinario, non stravolto quindi da continue ed aspre liti tra i genitori per la gestione dell'affidamento. La finalità resta sempre e comunque quella di permettere alla prole di crescere serenamente, senza subire sconvolgenti cambiamenti e rilevanti pregiudizi nella propria formazione a causa dell'interruzione della relazione sentimentale tra i propri genitori. Tale constatazione palesa, inoltre, la necessità di realizzare un'effettiva responsabilizzazione dei genitori chiamati sempre e comunque, in presenza o meno della crisi tra di loro, ad occuparsi con cura e devozione ai figli ed all'adempimento dei doveri genitoriali di cui sono onerati nei confronti degli stessi. Anche il tema dell'assegnazione della casa familiare è strettamente connesso a quello della tutela del minore al fine di garantirgli la prosecuzione delle precedenti abitudini di vita attraverso la conservazione del proprio originario habitat domestico. Quest'ultimo, infatti, non è solo il luogo materiale in cui si è fino ad allora svolta la vita della famiglia unita ma anche, o forse ancor di più, è il centro di affetti, di emozioni, di ricordi che fanno parte della quotidianità dei figli e devono accompagnarli nella loro crescita. L'assegnazione della casa familiare quindi, rientrando nell'ampia portata del dovere genitoriale di mantenimento della prole, è subordinata alla tutela della stessa e si presenta quale componente con cui il genitore non assegnatario, titolare esclusivo o contitolare dell'immobile, contribuisce al mantenimento dei figli collocati nell'abitazione con il genitore assegnatario dello stesso.

Matteo Santini*

Avvocato del Foro di Roma


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Due volte parti lese

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLa crisi economica si traduce in una crisi di diritti. Infatti, ad oggi, anche subire un reato ha un costo. Questa è la triste sensazione che abbiamo provato uscendo da un'aula del Tribunale penale di Roma. In effetti, nel corso di un'udienza destinata, tra l'altro, alla costituzione delle parti civili, il Giudice ha invitato i difensori costituendi ad apporre sui relativi atti una marca da bollo da 8 euro. Tale richiesta, come un fulmine a ciel sereno, ha spiazzato tanti difensori presenti in aula, che erano sprovvisti del su indicato valore bollato. Tutto ciò ha determinato confusione ed incertezza tra gli avvocati, che si sono confrontati sulla legittimità di tale richiesta di pagamento. Tra i difensori presenti in aula vi era anche l'avv. Romolo Reboa, che, una volta tornato a studio, ha inteso approfondire la questione sulle pagine di questa rivista da lui diretta. Ebbene, da ricerche effettuate è emersa una nota del 5 marzo 2008 a firma del Ministero della Giustizia, la quale ha stabilito che "la parte civile nel processo penale deve provvedere al pagamento della spesa di 8 euro in base all'art. 30 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115". La citata norma, infatti, impone un pagamento forfettario di 8 euro alla parte che per prima si costituisce in un giudizio civile. Ora, la stessa norma non fa alcun riferimento alla costituzione di parte civile nel processo penale. L'effetto è inevitabilmente un notevole stato di incertezza, che ha portato alcuni Tribunali ad adeguarsi alla citata nota ministeriale, senza porsi fino in fondo il problema della legittimità del pagamento, ed altri Uffici Giudiziari, come ad esempio il Tribunale di Bari, a sollecitare il Ministero della Giustizia per ottenere un chiarimento della questione. A tutt'oggi, non essendo stato raggiunto alcun punto certo, il direttore della rivista ha inviato una lettera ai Presidenti dell'Unione delle Camere Penali Italiane e delle Camere Penali del Lazio, così da ricevere la loro opinione su una problematica di diretto interesse non solo per l'avvocato ma, soprattutto, per il cittadino. In attesa di una loro risposta, che provvederemo a rendere nota su queste pagine, ci si chiede quanto sia giusto che migliaia di cittadini che si rivolgono alla giustizia per vedere protetti i loro beni più importanti si debbano trovare di fronte un cassiere prima che un giudice.

Giuseppe Asmodeo


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CEDU: caso Italia

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOCi hanno sempre insegnato a guardare avanti, che il futuro ci avrebbe dato la speranza e che con l'impegno e un po' di fortuna avremmo potuto far valere le nostre ragioni. Ogni tanto ci accorgiamo che le cose non vanno necessariamente così e che alla visione lineare ed evolutiva del tempo se ne affianca una ciclica, dove immancabilmente si commettono sempre gli stessi errori ma dove il punto più basso è anche quello di maggior speranza perché segna l'inizio di un nuovo ciclo virtuoso. A leggere la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo dell'8 Gennaio 2013, caso Torreggiani, viene da pensare che quel punto più basso, il "fondo", l'abbiamo davvero raggiunto. Il sovraffollamento carcerario italiano infatti viene definito "strutturale", poiché nel 2010 vi erano 67.961 detenuti a fronte di una capienza massima di 45.000 persone con un tasso di sovraffollamento del 151%. La grandezza di tali numeri e la loro stabilità chiarisce che il sovraffollamento abbia ormai carattere non temporaneo e dunque si possa a ragione parlare di un "caso Italia", che ingloba tutti i misconosciuti casi dei carcerati italiani. Preso atto della permanente emergenza italiana, la Corte esamina se e quali misure l'Italia abbia adottato per farvi fronte. Il 13 Gennaio 2010 il Governo ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale, il 19 Marzo 2010 ha nominato un commissario per elaborare il "Piano carceri", il 29 Giugno 2010 ha approvato tale piano per realizzare, entro il 31 Dicembre 2012, 11 nuove carceri e 20 nuovi padiglioni in strutture esistenti e il 26 Novembre 2010 la legge 199 ha previsto che fino al 2013 gli ultimi 12 mesi di detenzione avvengano presso l'abitazione del condannato, salvo casi particolarmente gravi. Tanto si è detto e dibattuto in Parlamento e sulla stampa di tali provvedimenti che poco si è fatto. Anche al netto del decreto "svuota carceri" del ministro Severino, la situazione al 2012 rimane sostanzialmente invariata, con una popolazione carceraria di 66.585 persone e un tasso di sovraffollamento del 148%. Nella sentenza Torreggiani allora la Corte è passata dalla mera condanna dell'Italia ad un'opera di consulenza tecnica non richiesta, per cui peraltro essa stessa si dichiara fuori ruolo. La Corte evidenzia come il problema non può essere risolto con la creazione di nuove strutture carcerarie né è legata alla contingenza del momento, ma riguarda piuttosto il corretto uso delle strutture esistenti. Le misure cautelari dovrebbero essere, secondo la CEDU, le minime compatibili con gli interessi della giustizia e invece il 42% dei detenuti è recluso in regime di custodia cautelare a cui nella metà dei casi non seguirà una condanna definitiva. La Corte ci ricorda anche come mai abbiamo considerato seriamente le misure alternative alla carcerazione, come il famoso "braccialetto elettronico", apparso solo nel bilancio dello stato e nelle serie televisive. La convivenza col "caso Italia" non fa neanche più notizia, assomiglia un po' ad un conoscente antipatico che ogni tanto incontriamo al bar sotto casa e salutiamo controvoglia. La stabilità del "caso Italia" è di quelle che lascia solo la speranza e niente più, speranza che affidiamo agli operatori del diritto, coscienza civile del paese, perché mutino lo stabile declino della situazione carceraria in un nuovo ciclo virtuoso.

Massimo Reboa


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