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Etica

L’eutanasia: metodica per anticipare la morte

Eleuana EnglaroRiflessioni sull'eutanasia

 

In chi cura persone affette da patologie gravi (che alcune volte diventano incurabili), il concetto di prolungare la vita oltre ogni limite si scontra con quello di chi vuol mettere fine alle loro sofferenze.

L’insegnamento che sento di dover trasmettere a chi abbraccia la professione medica e ai miei studenti di medicina e odontoiatria è l’antico ma sempre valido: «Primum non nocere». Quante volte il richiamarsi ad esso nella professione medica fa si che si scelga la via ardua di non abbattersi mai, di non lasciarsi sopraffare dallo sconforto, di essere sempre pronti a lottare per sconfiggere il male. Il medico deve esercitare la sua professione per debellare la malattia e ove questo non sia possibile, adoperarsi per migliorare lo stato di salute generale.

“Non nocere” è un principio dal quale non si può in nessun caso prescindere.

L’eutanasia è l’esatto opposto, è “nocere”. E’ predisporre un incontro anticipato con la morte. Quale motivazione può spingere a tanto?

La disperazione dei parenti o la richiesta pietosa del malato sono elementi sufficienti ad indurre il medico ad andare contro i principi morali, etici, religiosi, professionali sui quali è basata la professione medica? Far morire significa uccidere. E’ questo “non nocere”? Il voler decidere della vita e della morte somiglia ad una grottesca prova di potere di chi si sente onnipotente e simile a Dio. La fede che alberga in ognuno di noi deve essere la molla che fa scattare il desiderio di salvare, alleviare, confortare chi, colpito dal dolore e dalla malattia, chiede di non soffrire. Chi chiede di morire in realtà teme la morte e non la desidera affatto. Quello che invece chiede è che vengano alleviate le sue sofferenze fisiche utilizzando tutti i mezzi a disposizione degli operatori. Il medico ha il dovere secondo me, di insistere oltre ogni limite nella ricerca della cura e del prolungamento della vita. Accanimento terapeutico forse, ma ritengo dovere del medico insistere nella ricerca. Il dovere etico, morale e professionale è di adoperarsi per il raggiungimento dello stato di salute. Mai, dico mai, è ipotizzabile il fine di porre drasticamente fine alla vita. Argomento attinente correlato e di grande attualità, è quello relativo ai trapianti. Grande passo avanti per la scienza che, utilizzando organi prelevati da un paziente “clinicamente morto” (che presenta ECG piatto per sopravvenuta morte fisiologica), consente per mezzo dell’impianto, la vita ad un esse umano che stava per perderla. Attenzione però al rigore dei disciplinari, altrimenti si corre il rischio di creare precedenti pericolosi a cui persone motivate da principi che dall’etica molto si discostano, potrebbero attingere.

 

Giuseppe Maria Pagliucci* Titolare dell’insegnamento di Patologia Chirurgica presso l’Università di Tor Vergata (Roma), responsabile dei servizi di Ipertermia Clinica del Policlinico di Tor Vergata.


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Una diversa concezione del «diritto alla vita»

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOSulla riforma legislativa in materia di eutanasia.

 

Non vogliamo lasciarci andare a dissacrazioni o, addirittura, a “sgarbi polemici”, oggi molto di moda tra i così detti "opinionisti", non possiamo - tuttavia - fare a meno di osservare come, per i nostri mass media, negli ultimi tempi l'argomento Giustizia sembri circoscritto alla "Riforma Cirami" ed ai processi "Imi- Sir" e "Cogne", intorno ai quali si infittisce il tormentone delle interviste a giudici, avvocati e psicologi (ormai presenti in pianta stabile in certi studi televisivi), con accompagnamento di immancabile descrizione di scene sanguinarie o di straziante sofferenza.

Telegiornali e servizi "speciali" si trasformano, sempre più spesso, in uno spettacolo da “grang guignòl”, in cui telecamere e cronisti si attardano a mostrare e narrare particolari eccessivi, se non addirittura morbosi, che riguardano i crimini più efferati.

Un tale desolante panorama porta a chiedersi se questi campioni della comunicazione di massa del terzo millennio sappiano che maestri multimediali dell'antica civilissima Grecia - quali Eschilo o Sofocle - non indulgevano mai nella rievocazione e descrizione visiva di scene di violenza sanguinaria, affidandone il racconto al solo sottofondo del coro, pur essendo le loro opere delle tragedie!

Ma, tant’è. Di fronte ad un simile quadro si avverte, con amarezza, la scarsa attenzione riservata da Tv e stampa ad un'importante riforma legislativa di cui si sta discutendo in questi giorni nella commissione ministeriale presieduta da Carlo Nordio, il cui tema - incentrato sulla possibilità di rivedere la figura del reato legato alla eutanasia - può, senz'altro, ritenersi di portata epocale nella civiltà giuridica del nostro Paese, non meno di quello legato alla legge di depenalizzazione dell'aborto.

La premessa di ordine etico-filofofico da cui muove il nuovo disegno di legge è quella di identificare la vita non più come un dovere dell'uomo, ma piuttosto come una libertà e, quindi, un diritto del quale - in casi ben circoscritti - possa essere consentito disporre.

In particolare, l'ipotesi presa in esame è quella del malato così detto terminale, cioè in quello stadio irreversibile segnato da un arco temporale più o meno lungo di sofferenze e degrado psicofisico, durante il quale il soggetto si trova nell'assoluta incapacità di disporre della propria esistenza o di chiedere ad altri di disporne, facendo cessare l'accanimento terapeutico e, con esso, il protrarsi di uno straziante calvario.

Per tali casi, dunque, in sede di progetto di riforma, si sta prendendo in considerazione, con l'opportuna cautela, la possibilità di consentire alla persona, in un periodo di vita in cui si trovi ancora nella pienezza delle proprie capacità psico-fisiche e intellettuali, di redigere e depositare (presso un Notaio, come per ogni atto di "ultime" volontà) un vero e proprio "Testamento biologico", con cui si diano le disposizioni da valere al momento dello stadio terminale di un'eventuale malattia, allo scopo di pervenire ad una morte dignitosa, senza che la persona a ciò delegata possa incorrere nelle sanzioni penali di cui agli articoli 579 e 580 del codice penale.

A suggerire un qualche favore ad una possibile depenalizzazione potrebbe valere notare come, in taluni paesi dell'Europa (quale, ad esempio, l'Olanda) si è già proceduto alla legalizzazione dell'eutanasia, resa possibile sia pure in casi ben delimitati e dopo il parere scientifico di due sanitari, e negli USA, da oltre dieci anni, con l'approvazione del "Self determination Act" (del 1991) è in vigore il così detto principio di "autodeterminazione", che conferisce al malato terminale la facoltà di sottrarsi all'accanimento terapeutico.

In Italia - com'è di ogni evidenza - il tema è estremamente delicato e scottante: su di esso è in atto, in Commissione (e, in particolare nella sottocommissione presieduta dal prof. Fabrizio Ramacci, Direttore dell'Istituto di Diritto penale della Sapienza di Roma), un intenso dibattito che vede una contrapposizione alquanto netta tra i sostenitori della riforma - che mirerebbero ad una depenalizzazione di tipo generale (olandese) o attenuata (statunitense) - e gli assertori della intangibilità della vita, i quali si richiamano ad una posizione etica a sfondo religioso da cui - come ha ribadito il prof. Mauro Cozzoli, Docente di Teologia morale nella Pontifica Università Lateranense - anche l'etica giuridica non dovrebbe discostarsi.

Si è, dunque, in presenza di un dibattito che è tempo di affrontare - fin da oggi - con il massimo approfondimento e serenità, tenendo nel debito conto la laicità della norma giuridica e dello Stato da cui essa promana, senza - tuttavia - travolgere i valori etico-spirituali (in senso lato), grazie ai quali l'esistenza umana si affranca dal grossolano materialismo.

La discussione - come si vede - involge la concezione stessa della vita di fronte alla legge, per occuparci della quale, francamente – quali avvocati - ci rifiutiamo di pensare che si debba attendere che il tema sia ritenuto meritevole di entrare nel palinsesto di un "talk show" televisivo, immancabilmente realizzato con giuristi, politici e sacerdoti, in ibrida compresenza con attricette vistosamente scosciate e offerto con la collaudata tecnica di vendita del "Porta a Porta"!

Al contrario, crediamo fermamente che l'avvocatura, anche attraverso la stampa - ed in special modo quella forense - debba, per tempo, stimolare un sereno ed aperto confronto su temi di grande spessore sociogiuridico, quale è, appunto, quello della riforma dell'eutanasia.

E', dunque, in tale ottica che vorremmo fosse intesa questa nostra provocazione, alla quale - confidiamo - possano seguire le opinioni libere degli operatori del diritto, tanto più autorevoli quanto più lontane da condizionamenti di natura politica, alla stessa maniera di quanto si registrò con i consensi larghissimi e trasversali nei più vasti strati della società e della stessa avvocatura italiana per le riforme in tema di divorzio e di aborto.

 

Mario Romano


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Cosa si intende per accanimento terapeutico?

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOIl conflitto filosofico della “dolce morte”. Un pensiero libero sull’uomo e la morte

 

E’ bene soffermarsi un po’ su questo argomento per l’incertezza che regna sovrana nei parenti dei pazienti gravi e per il concetto che si alterna tra il personale medico e paramedico nella definizione esatta di “accanimento”.

La parola è già bruttissima e dà l’impressione di qualcosa di negativo, quando invece consiste in uno sforzo, talora ai limiti della resistenza, di sanitari che non vogliono dire, o lo vogliono dire il più tardi possibile, che è “finita”. Cosa è “finita”? La battaglia per la vita, e, prescindendo dai casi dei risvegli imprevedibili che richiederebbero una discussione lunga a parte, ma limitandoci brevemente ai pazienti tumorali o in preda a malattie non guaribili nei riguardi dei quali necessita un particolare riguardo professionale, morale, umano e fisico.

Penso e credo che con me tanti sanitari siano d’accordo, che il concetto di “mantenere in vita” debba essere il primo ineludibile e mai trascurabile “memento” per cui non si è degni di chiamarsi medici o infermieri se lo si rinnega.

Dal concetto dell’aborto, definito “olocausto” da Sua Santità, alla decisione di staccare la spina o di abbandonare le cure possibili, riducendo ad un morfinodipendente il paziente, c’è una bellissima strada: il tentare il possibile senza nascondersi dietro un dito, dicendo «ma tanto non si può guarire», arrogandosi il diritto che all’uomo non spetta, quello di vita e di morte o di pensare che il paziente forse vorrebbe continuare a curarsi.

Ricordandosi sempre che tale evento può succedere a ciascuno di noi, nei momenti della decisione che il medico deve prendere ritengo, senza tema di smentita da chi fa il medico sul serio, che tutte le vie vanno intraprese, che quando la sofferenza (che solo la fede può aiutarci spesso a comprendere) induce anche il paziente a “scegliere la morte”, si può diventare corresponsabili anche moralmente di eventuali suicidi o della negazione della “speranza” che nella vita ci fa superare tanti ostacoli.

Concluderei sostenendo che la vita va protetta al massimo; qualora il paziente non fosse cosciente, e si presumesse con competenza e coscienza che stesse soffrendo oltre i limiti della sopportazione, nonostante le cure assai progredite, i parenti si dovrebbero assumere la responsabilità, sempre, di sospendere quell’alito di vita che potrebbe, anche all’improvviso, trasformarsi in miglioramento, stabilizzazione in meglio o in guarigione.

 

Giuseppe Maria Pigliucci* Titolare dell'insegnamento di Patologia e Terapia Chirurgica, Responsabile del servizio ambulatoriale di Ipertermia clinica del Policlinico dell'Università Tor Vergata di Roma 

  

  

 


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Il testamento biologico in Parlamento

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOIl disegno di legge contenente 'Disposizioni in materia di consenso informato e di dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari' è stato recentemente presentato al Senato dagli onorevoli Del Pennino (del PRI) e Ripamonti (dei Verdi) sulla base di una proposta presentata da Manconi nella passata legislatura e mai discussa. L’aspetto fondamentale del disegno di legge è la previsione di una dichiarazione di volontà scritta, appunto il "testamento biologico", che potrà «restare valida anche per il tempo successivo alla perdita della capacità naturale»; l'eventuale rifiuto di cure «deve essere rispettato dai sanitari anche qualora ne derivasse un pericolo per la salute o per la vita, e li rende esenti da ogni responsabilità indipendentemente da qualunque disposizione di legge vigente prima dell'entrata in vigore della presente normativa». Il disegno di legge prevede inoltre la possibilità di nomina di una «persona di fiducia la quale, nel caso in cui sopravvenga uno stato di incapacità naturale irreversibile... , diviene titolare, in sua vece, dei diritti» della persona non più capace.

 


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Il paradosso è nella dialettica del divenire

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOSappiamo che i Giudici hanno deciso per Eluana: si potranno interrompere i sostegni per quella vita vegetativa ed impropria del suo corpo. Ho cercato parole, per la proposizione soprascritta, ed unendo questa a quella vita vegetativa ed impropria…sono rimasto ai margini della verità che vorremmo darci tutta intera.

Per noi ..per lei ..per quel più che non possiamo sapere.

Esse est percepi? Cosa è la percezione, è fondamento del vivere, qui, non c’è dubbio.

Ora l’organismo di Eluana, può, sussumere, percepire cioè, quanto le viene dato per esistere solo come organismo nell’osmosi necessaria al suo mantenersi organico. Questo è un percepire senza coscienza, teleologicamente organico al corpo di Eluana, nei limiti in cui è. I presidi medici hanno potuto mantenere questo livello, per Eluana e lo potrebbero ancora per il tempo che è concesso e non sappiamo, ma non possono dare coscienza all’organismo. Questo, per quanto sappiamo, se l’elettroencefalogramma è piatto irreversibilmente.

Ecco allora la necessità di una scelta per sciogliere il dilemma che non riguarda Eluana ma la coscienza sociale confortata dalla conoscenza dello stato di “Eluana”. Oltre le colonne di Ercole non possiamo andare: queste sono le vigili forme della impossibilità di superarle, quale che sia il molo a cui attraccare la nostra barca. Il paradosso è nella dialettica del divenire, che è possibile decifrare solo come il principio di indeterminazione pone, giunti che siamo ad una soglia che non possiamo superare. Siamo sbilanciati nel mistero e rimane il dramma nella nostra coscienza. Ecco allora la sentenza che deve ancorarsi, nella scelta, al rispetto di quei dati e di quelle norme che possono essere decifrate per costituirla come giustizia. Questo nell’impossibilità di adagiarsi in una legge che ancora non c’è. Una legge che decifrerà i limiti che il rispetto del diritto della persona ed alla persona impone? Ordinati, nel tempo della vita cosciente di Eluana, i termini della sua volontà permetteranno l’adempimento di un dovere che la coscienza sociale impone. Ecco la necessità del testamento biologico.

 

Giovanni Lombardi*

Avvocato del Foro di Roma

 


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