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Etica

Le medaglie agli avvocati

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOSabato 13 dicembre Aula avvocati del Palazzaccio: cerimonia del Consiglio dell'Ordine per il conferimento delle medaglie d'anzianità agli Avvocati titolari di cinquanta sessanta e perfino settanta anni di iscrizione. Ero seduto con molti altri Colleghi in platea: io la medaglia dei cinquant'anni l'ho presa tre anni fa e la esibisco in una vetrinetta dorata stile impero. L'aula, quella degli avvocati, era purtroppo insufficiente a contenere il folto pubblico forse 600/700 persone. Non era evidentemente disponibile l'Aula Magna della Suprema Corte dove in altri anni si è svolta la stessa cerimonia Ma non è su questo che voglio intrattenere i miei pochi lettori. L'aula era insufficiente ma non mi è apparsa sorda e grigia; anzi gli interventi di giovani e meno giovani Colleghi mi hanno suggerito qualche considerazione sulla condizione dell'avvocatura e sul suo ruolo civile. Un autorevole collega, chiamato al microfono, ha lamentato la sorte degli avvocati per il gran numero di iscritti e l'esiguità dei redditi professionali. Forse nella speranza di ottenere la solidarietà dell'uditorio nel quale figuravano autorevoli esponenti della società civile. Forse anche, chi sa, nella prospettiva delle prossime elezioni del Consiglio. Molti, è stato detto, si cancellano dagli Albi; molti, è stato detto, hanno un reddito che si aggira sui 10.000 euro l'anno. Sono informazioni ricorrenti. Proprio oggi 21 dicembre, mentre approfitto della domenica per buttare giù questo intervento, il Messaggero di Roma pubblica un articolo di Valeria Arnaldi sulla crisi dell'avvocatura. Questo il titolo: "Professionisti e crisi, tra i nuovi poveri avvocati e ingegneri Sono 20.000.000 gli avvocati che nel 2012 hanno fatturato zero e che quindi risultano del tutto improduttivi". Qualche migliaio di avvocati si sono cancellati dall'Albo; qualcuno per tirare avanti...canta ai matrimoni !!!; qualche altro, pare, si è improvvisato spogliarellista!!!. E' quanto si legge, accanto all'intervista della Arnaldi, sul quotidiano romano. L'argomento non è nuovo, a parte la assoluta inopportunità di farne oggetto di un intervento nella manifestazione del 13 dicembre alla presenza di autorevoli rappresentanti delle istituzioni e di un pubblico eterogeneo. In quella e in altre occasioni si trattava invece di celebrare i meriti dell'avvocatura e il suo immenso potere istituzionale che la Costituzione ci assegna e che nessuna altra professione possiede. La verità è un'altra: gli avvocati in Italia non sono troppi ma forse pochi per combattere le ingiustizie e gli abusi della corruzione e del potere violento dei partiti. Il problema è invece: per un verso la totale sfiducia dei cittadini nella giustizia in ragione dei tempi e dei costi del servizio giudiziario che aumentano quotidianamente col gioco del contributo unificato senza migliorare in nulla le strutture e il servizio, di qui la frattura insanabile tra il cittadino e la giustizia; per altro verso la assoluta incapacità degli organismi forensi, sia istituzionali che di rappresentanza sindacale, di far valere il diritto dei cittadini a una giustizia rapida, efficace e soprattutto.... giusta. Lo spettacolo di un servizio giudiziario che ha tempi biblici, che per di più è appesantito e oppresso da innumerevoli ostacoli normativi di eredità bizantina e lontanissimi dalle esigenze del mondo contemporaneo (prescrizioni, decadenze, inammissibilità, improcedibilità) non può che scoraggiare gli utenti compromettendo irreparabilmente la domanda di patrocinio. Ma alle scelte normative gli avvocati assistono inerti, basti ricordare, a mo' d'esempio, la riforma del diritto fallimentare che ha consentito a innumerevoli imprenditori disonesti di sottrarsi all'adempimento delle proprie obbligazioni facendosi beffa dei malcapitati creditori. Tutto in nome della economia dei consumi ma in realtà per favorire scelte non occasionali quali la impunità e l'illecito. Gli avvocati tacciono; non hanno dunque di che lamentarsi se il patrocinio non è più richiesto. Prendano piuttosto esempio dai magistrati che, con una pagina pubblicitaria dell'Ansa su diversi giornali, hanno invitato cittadini a "aprire gli occhi"Ha detto Sabelli dell'Anm: "120.000 processi vanno in fumo, 60 miliardi di euro è il costo della corruzione; 9.000 cancellieri mancano negli uffici giudiziari se si vogliono celebrare i processi occorre il personale". Questo vale per il penale ma anche per il civile segnatamente in materia commerciale e societaria come appare evidente dalla sommarietà dei procedimenti. E allora perché noi avvocati restiamo assenti da queste drammatiche e fondatissime analisi della realtà legislativa e giudiziaria del nostro Paese?

Giorgio della Valle

Avvocato del Foro di Roma


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Trust e tutela del patrimonio familiare

L'istituto del trust non è direttamente disciplinato dalla legge italiana ma può essere dalla stessa riconosciuto, in presenza di certe condizioni, avendo l'Italia sottoscritto la Convenzione de L'Aja, del 1° luglio 1985, ratificata con la legge 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore il 1° gennaio 1992. La legge Finanziaria per l'anno 2007, ha introdotto una specifica disciplina in materia di trattamento tributario del trust ai fini delle imposte dirette. Il trust viene spesso costituito come strumento di pianificazione patrimoniale per imprese e famiglie. Mediante il trust un soggetto (detto settlor o disponente) trasferisce ad un altro soggetto (detto trustee) beni o diritti con l'obbligo di amministrarli nell'interesse del disponente o di altro soggetto (beneficiario) oppure per il perseguimento di uno scopo specifico, sotto l'eventuale vigilanza di un terzo (protector o guardiano), secondo le regole stabilite dal disponente nell'atto istitutivo di trust e dalla legge regolatrice dello stesso (che deve essere necessariamente straniera). L'atto istitutivo di regola prevede che, alla scadenza del trust, i beni conferiti nel trust vengano trasferiti al beneficiario del trust (che può anche essere lo stesso disponente). E' ipotizzabile che il trust nasca anche mediante una dichiarazione unilaterale del disponente, che si dichiara anche trustee di beni o diritti nell'interesse del beneficiario o per il perseguimento di uno scopo (in questo caso il trust viene detto auto-dichiarato). I trust possono essere istituiti per diverse finalità: liberali - caritatevoli, commerciali, finanziarie, successorie. La giurisprudenza si è pronunziata più volte in materia di trust nel corso degli ultimi anni arrivando a sancire la non esclusiva tipicità degli atti trascrivibili e, quindi, la trascrivibilità del trust in forza della legge nazionale di ratifica e l'ampia possibilità per i privati di derogare l'art. 2740 c.c., con il conseguente effetto segregativo che viene a prodursi sui beni costituiti in trust. La trascrivibilità (senza riserve) di atti di trust recanti trasferimenti di beni immobili dal disponente al trustee è ormai pacificamente affermata dalla giurisprudenza di merito in quanto "proprietà qualificata" trascrivibile ai sensi della legge di ratifica della Convenzione, e in particolare dall'articolo 12. La trascrivibilità del trust rappresenta elemento essenziale ai fini della decisione del soggetto disponente di servirsi dello strumento. Infatti, l'utilità del trust, ove ne fosse preclusa la trascrivibilità, sarebbe nulla, poiché l'effetto segregativo, voluto dalla stessa Convenzione dell'Aja, risulterebbe inopponibile ai terzi. Ai sensi della Convenzione dell'Aja e della legge nazionale di ratifica, qualsiasi vicenda di tipo personale e patrimoniale del disponente non colpirà mai i beni, i quali risulteranno "assicurati" da un vincolo di segregazione. I beni conferiti in trust attraverso l'atto di dotazione entrano nel patrimonio del trustee, costituendo un patrimonio separato, distinto dai restanti beni personali di quest'ultimo ed insensibile alle vicende di questi. La segregazione patrimoniale è l'aspetto fondamentale che caratterizza il trust; essa comporta che i beni in trust rappresentino un patrimonio separato rispetto ai beni del disponente e del trustee e, pertanto, come prima accennato, qualunque vicenda personale e patrimoniale che riguardi tali soggetti non colpisce i beni in trust. I beni in trust, quindi, non possano essere aggrediti dai creditori personali del trustee, del disponente e dei beneficiari ed il loro eventuale fallimento non vedrà mai ricompresa nella massa attiva fallimentare i beni in trust (opera il cosiddetto vincolo di destinazione e di separazione). La Convenzione dell'Aja all'articolo 11 sancisce il riconoscimento del trust costituito in conformità ad una legge specifica. L'articolo 13 attribuisce il potere, allo Stato che dovrebbe provvedere al riconoscimento, di rifiutarlo se gli elementi costitutivi del trust, all'infuori della legge regolatrice richiamata, rimandano ad un diverso ordinamento che non conosca l'istituto. La legge regolatrice del trust deve essere necessariamente straniera, stante la mancanza nell'ordinamento italiano di norme specifiche in materia. Ove l'atto istitutivo del trust contenga disposizioni che siano in contrasto con norme inderogabili o con principi di ordine pubblico previsti dalla legge Italiana, sarà quest'ultima a dover essere applicata. In materia di inquadramento fiscale del trust esistono due orientamenti. Il primo ritiene che si applichi al momento dell'istituzione del trust, l'imposta sulle donazioni in quanto, il trasferimento della proprietà dei beni in trust dal disponente (settlor) al trustee, determinerebbe una diminuzione del patrimonio del primo a vantaggio del secondo, ravvisandosi, pertanto, l'animus donandi del settlor. Il secondo orientamento ritiene che non vi sia l'animus donandi del settlor e che l'imposta ritenuta applicabile sarà quella di registro, in misura fissa, prevista per gli atti a titolo gratuito. La tesi più accreditata, anche in Giurisprudenza, è quella che considera l'atto istitutivo del trust come atto non equiparabile ad un trasferimento a titolo oneroso, perché non vi è corrispettivo, né ad una donazione difettandone la causa, ma ad un atto a titolo gratuito, neutro dal punto di vista fiscale, soggetto ad imposizione indiretta (imposta di registro, ipotecaria e catastale) in misura fissa, attraverso il quale il disponente realizza il proprio intento di arricchire spontaneamente un terzo, facendo affidamento sul trustee e sull'obbligo da costui assunto di adempiere alla direttive impartite dal beneficiante medesimo. Il successivo atto di trasferimento ai beneficiari, atto che realizza il vero risultato economico perseguito dal settlor, sarà soggetto, invece, all'imposta prevista per la transazione propria del negozio a cui corrisponde, da individuarsi caso per caso, ma che normalmente sarà quella di donazione. Infine, per quanto riguarda le imposte ipotecarie e catastali, se dovute, si applicheranno sia in relazione agli atti di trasferimento dal disponente al trustee, in misura fissa, sia in relazione ai successivi atti traslativi effettuati dal trustee in favore dei beneficiari, in misura proporzionale. Ai fini fiscali il Trust si considera residente nel territorio dello Stato al verificarsi di almeno una delle condizioni indicate per la maggior parte del periodo di imposta:

• sede legale nel territorio dello Stato

• sede dell'amministrazione nel territorio dello Stato

• oggetto principale dell'attività svolta nel territorio dello Stato.

L'art. 73 del TUIR (comma 3), prevede due casi di attrazione della residenza del trust in Italia: a) Si considerano residenti nel territorio dello stato, salva prova contraria, i trust e gli istituti aventi analogo contenuto istituiti in Paesi che non consentono lo scambio di informazioni quando almeno uno dei disponenti ed almeno uno dei beneficiari siano fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. b) Si considerano, inoltre, residenti nel territorio dello Stato i trust istituiti in uno Stato che non consente lo scambio di informazioni, quando, successivamente alla costituzione, un soggetto residente trasferisca a favore del trust la proprietà di un bene immobile o di diritti reali immobiliari ovvero costituisca a favore del trust dei vincoli di destinazione sugli stessi beni e diritti. In tal caso, è proprio l'ubicazione degli immobili che crea il collegamento territoriale e giustifica la residenza in Italia.

Matteo Santini

Avvocato del Foro di Roma


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Assegno di mantenimento

Avv. romolo Reboa, Romolo Reboa, avv. Reboa, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLO, Romolo, Reboa Massima: "Nella determinazione della misura dell'assegno al coniuge, devono essere considerate tutte le risorse economiche dell'onerato: tra queste rientrano "gli accantonamenti societari disposti come riserve disponibili" delle società, di cui l'onerato è socio di maggioranza. (Cassazione civile, sezione I, n, 130/2014). La suindicata sentenza ci consente di inquadrare la determinazione della misura dell'assegno di mantenimento a carico del coniuge, considerando tutte le risorse economiche dell'onerato, tra cui, le riserve disponibili delle società partecipata dal socio, soggetto onerato alla corresponsione dell'assegno di mantenimento. La recente Sentenza in commento, analizza due profili afferenti alla rottura coniugale: il primo relativo al presupposto dell'infedeltà coniugale come rilevante causa di addebito e che incide sulla determinazione dell'assegno di mantenimento, l'altro profilo relativo all'influenza delle riserve della società disponibili ed attive nel bilancio della società partecipata, con quote di maggioranza intestate al marito, quale soggetto obbligato alla corresponsione dell'assegno di mantenimento, sulla determinazione del quantum a titolo di assegno di mantenimento. Si parte dal primo rilevante aspetto costituito dalla causa di addebito della separazione, lamentando il ricorrente la circostanza che la Corte di Appello di Venezia, non avrebbe tenuto in considerazione l'intollerabilità della convivenza in virtù dei comportamenti posti essere in violazione degli obblighi matrimoniali da parte della moglie, evidenziando, altresì, la condotta contraria ai doveri di solidarietà matrimoniali, in particolare la dipendenza della stessa dall'alcool. La rottura della crisi coniugale, a dire del marito, sarebbe stata imputabile alla condotta della moglie, la quale, a seguito della reiterata dipendenza dall'alcool, non ottemperava ai doveri ed obblighi matrimoniali. Secondo l'orientamento dei Giudici di Legittimità, più precisamente, a costituire motivo rilevante della rottura coniugale, più che la condotta della moglie e la sua dipendenza dall'alcol, vi era la relazione extra coniugale, intrapresa dal marito nello stesso periodo, il suo abbandono della casa coniugale per trasferirsi nella villetta, ricevuta in donazione dalla moglie. Tale comportamento, rappresentava il motivo determinante l'intollerabilità della convivenza, con conseguente esclusiva addebitabilità della separazione al marito. E' opportuno osservare che dal matrimonio derivano alcuni doveri ed obblighi, ai quali ciascun coniuge deve attenersi; difatti, è doveroso precisare che "Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia". In particolare il dovere di fedeltà nel matrimonio rappresenta il senso di una vicendevole lealtà e dedizione consistendo nell'impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi, che dura quanto dura il matrimonio e non deve essere intesa soltanto come astensione da relazioni sessuali extraconiugali. Nella fattispecie de quo il ricorrente, avrebbe violato tale dovere intrattenendo una relazione extraconiugale. Tali episodi, reiterati nel tempo e vissuti anche alla luce del sole, rientrano in comportamenti posti in essere in violazione degli obblighi nascenti del matrimonio e che hanno rappresentato la causa della rottura del rapporto di fiducia che dovrebbe sovraintendere ad ogni unione matrimoniale. Oltre al dovere di fedeltà, nel caso in questione sarebbe stato, altresì, violato il dovere di assistenza morale e materiale, posto quale principio cardine del matrimonio. Nell'ambito di tale dovere rientra il rispetto ed il soddisfacimento dei bisogni quotidiani, economici e materiali, del coniuge, e dunque, il far partecipare il coniuge al tenore di vita consentito dai propri mezzi finanziari; il contenuto dell'assistenza morale, consta, invece, nel reciproco sostegno affettivo, psicologico e spirituale. Per tal via, integra la violazione dell'obbligo di assistenza materiale (oltre che del dovere di coabitazione), la relazione extraconiugale nonché l'allontanamento dalla residenza familiare. Sulla misura dell'assegno di mantenimento e rilevanza delle quote societarie quale riserve disponibili. Esaurita l'argomentazione relativa alla causa della rottura del vincolo coniugale a seguito del comportamento infedele del coniuge per aver violato alcuni degli obblighi posti alla base del matrimonio, resta da esaminare il profilo di doglianza costituito dalla determinazione dell'assegno di mantenimento e dalle varie influenze date da eventuali ed ulteriori utili percepiti dal coniuge obbligato, in grado di incidere positivamente sulla capacità di spesa, potenziale redditualità e patrimonialità del coniuge obbligato. Il ricorrente lamentava l'errata valutazione da parte della Corte di merito, relativamente al quantum determinato a titolo di assegno di mantenimento, che avrebbe tenuto conto delle riserve societarie disponibili in bilancio, le quali avrebbero costituito incremento dell'attitudine reddituale e patrimoniale. Gli Ermellini hanno affermato con la recente sentenza 130/14, la Prima Sezione della Corte, che costituiscono una speciale tipologia di redditi, le "riserve societarie disponibili" presenti nel bilancio delle società, delle quali l'onerato sia socio di maggioranza. Sostanzialmente la Corte di Cassazione ha ritenuto inquadrare come elementi indicativi della capacità reddituale del soggetto non solo gli utili aziendali e le quote societarie ma anche le riserve societarie. In effetti, il reddito emergente dalla posizione lavorativa del marito imprenditore, deve tener conto di tutti gli elementi di ordine economico, o comunque apprezzabili in termini economici, diversi dal reddito dell'onerato, suscettibili di incidere sulle condizioni delle parti (quali la disponibilità di un consistente patrimonio, mobiliare ed immobiliare, e la conduzione di uno stile di vita particolarmente agiato e lussuoso e gli utili aziendali) avuto riguardo a tutte le potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio in termini di redditività, di capacità di spesa, di garanzie di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro. Pertanto, in ordine al presupposto della refusione dell'assegno di mantenimento ed alla relativa quantificazione va richiamato il principio di diritto, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il presupposto per l'attribuzione dell'assegno è la mancata disponibilità da parte del soggetto istante di adeguati redditi propri, la situazione reddituale all'atto della cessazione della convivenza, della moglie e del marito, quale elemento induttivo da cui ricavare, in via presuntiva, il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, avendo riguardo, quale parametro di valutazione del pregresso tenore di vita, alla documentazione attestante i redditi dell'onerato, al patrimonio mobiliare ed immobiliare, ad eventuali utili dell'azienda, ed alla titolarità di quote societarie di maggioranza. Queste ultime consentono al titolare, in questo caso marito, di poter disporre, accantonandole, di ulteriori forme di reddito "c.d. riserve disponibili", che costituiscono indiscutibilmente incrementi di reddito ed incidono inevitabilmente sulla determinazione del quantum in favore della moglie ed a carico del marito. La misura dell'assegno di mantenimento viene stabilita valutando il tenore di vita in atto al momento della cessazione della convivenza familiare e quello del coniuge richiedente e di quello beneficiario in un momento successivo alla separazione. La situazione economica della famiglia va valutata pure con riferimento agli eventuali successivi miglioramenti reddituali dovuti al normale e prevedibile sviluppo dell'attività lavorativa, in questo caso imprenditoriale, svolta durante il matrimonio ed anche dopo. (Cassazione civile 1487/2004; n. 1379/2000; n. 4319/1999; n. 2955/1998; n. 5720/1997; n. 5194/1997). La destinazione delle riserve societarie disponibili non è vincolata ad uno scopo speciale o statutario, ma può essere impiegata ed utilizzata liberamente, previa delibera di spesa, e deve quindi essere considerata quale elemento che influisce in termini positivi sul patrimonio del titolare delle quote di maggioranza societaria. La decisione oggi commentata ha respinto il motivo di gravame proposto dal marito, aderendo alla valutazione corretta operata dai giudici di appello, i quali hanno messo in risalto che tutte le risorse economiche dell'onerato, ivi comprese le disponibilità monetarie e gli investimenti in titoli obbligazionari ed azionari ed i beni mobili, costituiscono potenzialità derivanti dalla titolarità del patrimonio, in termini di redditività e capacità di spesa. Il tenore di vita, inoltre, risulta individuato proprio dalle risultanze delle capacità reddituali e patrimoniali delle parti : la Suprema Corte ha stabilito che "Il tenore di vita goduto in costanza di convivenza va identificato avendo riguardo allo standard di vita reso oggettivamente possibile dal complesso delle risorse economiche dei coniugi, tenendo quindi conto di tutte le possibilità derivanti dalla titolarità del patrimonio mobiliare ed immobiliare, in termini di redditività, di capacità di spese, di garanzia, di elevato benessere e di fondate aspettative per il futuro". (Cassazione civile n. 15326/2006). La sentenza oggetto di commento evidenzia che si considerano redditi di capitale gli utili derivanti dalla partecipazione al capitale o al patrimonio di società; tutti elementi che incidono in positivo sui redditi e patrimoni del proprietario. Indiscutibilmente nelle compagini societarie in cui il soggetto detiene quote sufficienti per esercitare un'influenza rilevante o dominante sull'assemblea, è opportuno che il giudice compia una valutazione analitica delle voci di bilancio ed uno sforzo interpretativo che non si limiti ad esaminare il fatturato della società, l'eventuale distribuzione di utili o dividenti ma che si spinga, al fine di determinare lo stato di salute dell'azienda, ad esaminare il bilancio secondo un'ottica contabile che consenta di evidenziare eventuali strategie poste in essere per "abbattere" gli utili annuali della società. L'accantonamento di somme da destinare a riserve volontarie, il pagamento di debiti non scaduti, il ritardo nella riscossione di crediti esigibili possono essere tutti elementi diretti a diminuire gli utili aziendali in modo tale che la società e, di conseguenza, la situazione economico reddituale del socio appaia meno florida.

Matteo Santini

Avvocato del Foro di Roma


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Sinistro mortale

siniavv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOCon la pronuncia n. 22909/12 la Suprema Corte coglie l'occasione per una breve disamina dei criteri di liquidazione del danno a seguito di un investimento mortale di una casalinga. In particolare, i Giudici di Piazza Cavour hanno censurato la sentenza di secondo grado, ritenendo che non vi sia stata una corretta personalizzazione del danno. In effetti, la Corte d'Appello aveva proceduto a liquidare il danno morale in una percentuale del danno biologico, ricorrendo al classico automatismo che è stato più volte censurato in sede di legittimità "perché tale criterio non rende evidente e controllabile l'iter logico attraverso cui il giudice di merito è pervenuto alla relativa quantificazione, né permette di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell'entità della relativa sofferenza e del turbamento del suo stato d'animo". E' quindi necessario che il Giudicante tenga conto delle condizioni personali e soggettive del danneggiato, della gravità delle conseguenze pregiudizievoli e delle particolarità del caso concreto, al fine di valutare in termini il più possibile equilibrati e realistici, l'effettiva entità del danno. Nel caso di specie, tra l'altro, la Corte di merito aveva quantificato i danni non patrimoniali addirittura tramite un doppio automatismo, poiché il danno subito da coniuge, figli e madre della vittima è stato calcolato in una percentuale del danno non patrimoniale ipotizzabile a carico di quest'ultima, che a sua volta è stato determinato in una percentuale del danno biologico ad essa riferibile. In secondo luogo, la Cassazione si sofferma sulle conseguenze pregiudizievoli a carico della famiglia della vittima, la quale svolgeva il fondamentale ruolo di casalinga. Su punto, la Suprema Corte ribadisce come la stessa abbia più volte deciso che "in caso di morte di una casalinga i congiunti conviventi hanno diritto al risarcimento del danno subito per la perdita delle prestazioni attinenti alla cura ed assistenza dalla stessa fornita, le quali, benché non produttive di reddito, sono valutabili economicamente, o facendo riferimento al criterio del triplo della pensione sociale o ponendo riguardo al reddito di una collaboratrice familiare (con gli opportuni adattamenti per la maggiore ampiezza di compiti esercitati dalla casalinga) (Cass. civ. Sez. 3, 12 settembre 2005 n. 18092; Idem, 24 agosto 2007 n. 17977; Idem). Ha soggiunto che il diritto al risarcimento spetta anche nei casi in cui la vittima si avvalesse di aiuti o collaboratori domestici, perché comunque i suoi compiti risultano di maggiore ampiezza, intensità e responsabilità rispetto a quelli espletati da un prestatore d'opera dipendente (Cass. civ. Sez. 3, n. 17977, cit; Idem, 20 luglio 2010 n. 16896)".

Daniele Costa

Avvocato del Foro di Roma

Ius in Action


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Efficienza della Giustizia civile

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLa Commissione UE ha condotto uno studio comparativo dell'efficienza dei sistemi giudiziari degli stati della Unione, cui è seguito un riassunto espresso in tabelle statistiche comparative: "The UE Justice score-board". I dati sono stati rilevati al 2010 e lo studio è di recente edizione. Pur non avendo ancora acquisito il testo completo (c/a 750pg) le notizie di sintesi trapelate meritano di essere subito sottoposte all'attenzione dei colleghi e dei cittadini con qualche immediato commento. Il rapporto riguarda la "non criminal justice" e ciò quella che più tocca da vicino il cittadino; le giurisdizioni civili ed amministrative. E per non fare la figura dei "precisi" l'Italia non ha inviato i dati relativi ai processi amministrativi; cosicché le graduatorie ne risulteranno falsate a nostro vantaggio. Il rapporto mette in luce alcuni fatti e quindi responsabilità, che nella dialettica interna, vengono disinvoltamente attribuite all'Avvocatura. Secondo la vulgata giustizia non funziona perché gli Avvocati sono troppi, perché tendono a dilatare i tempi del processo; perché sono impreparati, perché non sono "trasparenti" (uso un eufemismo) ecc.. Gli altri soggetti del processo sarebbero invece Kaloi Kai Agathoi (corollario: e potrebbero meglio e più presto far da soli). La realtà è ben diversa. Le statistiche interne sono "viziate" dalle fonti; CSM e Ministero e per di più prive di valore scientifico e non esaustive di dati ed argomenti; quali l'analisi costi, il rapporto costi/benefici delle singole Corti e dei Giudici monocratici. Tutto questo era già stato palesato dai tre contro rapporti predisposti dall'OUA tra il 2004 ad il 2007 (Coordinatore l'Avv. M. Ubertini) e da un articoletto di stampa, perso nella nebbia e non ripreso da nessuno dei "giornaloni"; che allegava sinteticamente a "ciucci" la quasi totalità dei partecipanti agli ultimi concorsi per la Magistratura: la legge di Gresham dunque non vale sono per gli Avvocati! Quanto ai costi pubblici del sistema non essendo affidati al mercato, non sarebbe inopportuno un qualche sistema che premi la produttività qualitativa. Ma c'è di più. Certamente tra gli Avvocati c'è un forte deficit formativo, ma a loro giustificazione può addursi il basso livello di reddito, che malgrado le prevenzioni ideologiche è dato reale (come dimostrato dallo studio presentato all'Università di Bologna nel 2008 dal sottoscritto - mi scuso per l'auto citazione; cfr: intervista su Italia Oggi maggio 2008); cosicché un giovane potenzialmente valente sarà stretto tra l'impossibilità propria di sostenere oneri tra i 3.000,00 e gli 8.000,00 euro e quella del suo Ordine, che deve fronteggiare eserciti di praticanti e neo iscritti. Nella formazione dei Magistrati però l'Italia è al terzultimo posto, pur essendo i relativi costi posti a carico della collettività e non dei singoli fruitori. E questo concorre a spiegare perché il 40% delle sentenze sono riformate in appello e i "filtri" si risolvano quindi in denegata giustizia; a tacere dello scandalo di certe, anche recenti, sentenze della Cassazione sull'inammissibilità dei ricorsi. Ma ciò che più duole è la percezione che i cittadini hanno della indipendenza della magistratura: siamo 19° in Europa e 68° nel mondo. L'immagine dell'Avvocato inetto, corrotto o corruttore sconta almeno la circostanza che nel processo uno soccombe. La battaglia sulla separazione delle carriere non è dunque una fisima di Avvocati e politici a rischio. La riforma dell'intero sistema: dall'unità della giurisdizione, al processo telematico, alla separazione delle carriere, ai costi, ai controlli di produttività; allo smaltimento dell'arretrato con metodi non corporativi, la realizzazione di sistemi efficienti di alternative al processo ordinario; non può essere realizzata da uffici legislativi portatori (anche in buona fede) di interessi di parte; ma dovrà coinvolgere tutti i soggetti della giurisdizione con pari dignità e fondarsi su dati scientificamente rilevati. Le cento riforme del C.P.C. non hanno dato alcun esito solo riducendo il "processo giusto" al "giusto processo". Facciamoci in fretta tutti un esame di coscienza e obblighiamo la politica inetta e timorosa a "ratificare" una riforma della giustizia consentita tra tutti quelli che ogni giorno stanno in trincea per salvare almeno l'idea.

Roberto Zazza*

Avvocato del Foro di Roma

Presidente Forum delle Professioni


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Convegno: Magistrati scrittori

Il 2 ottobre 2011 si è tenuta presso la Pinacoteca Palacultura di Latina la quarta edizione del Convegno dei magistrati-scrittori,realizzato da Eugius, Unione Giudici Scrittori d’Europa, nell’ambito della kermesse “Giallolatino”, Leggi tutto

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35 anni tra i protagonisti al "Canottieri Roma"

Festeggiato il compleanno della fondazione del giornale con la presentazione del libro "Da Piazzale Appio a Piazzale Clodio" Martedì 14 dicembre 2010, presso il “Circolo Canottieri di Roma”, si è svolta Leggi tutto

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"Per i diritti degli ultimi"

La tradizionale serata di fine anno della rivista Venerdì 16 dicembre 2011 la nostra Capitale ha cambiato aspetto, o almeno così è stato in via Flaminia 213 dove, presso lo Studio Leggi tutto