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Lavoro

Petrolio in Basilicata: "lettera aperta" di un disoccupato

In Basilicata c'è il più grande giacimento petrolifero d'Europa: che già ora, col centro estrazione della Val d'Agri (realizzato e gestito dall'Eni), contribuisce al 6% del fabbisogno petrolifero italiano. Se anche il secondo Centro oli Tempa Rossa, nell'alta Valle del Sauro, entrerà in funzione nel 2016, secondo gli auspici della Total, la multinazionale francese che, con un investimento di 1 miliardo e 600 milioni di euro, sta realizzando la mega-struttura, da esso, secondo le stime, verranno estratti ben 50mila barili di petrolio al giorno, ai quali aggiungere la produzione di gas naturale, Gpl e zolfo. Come si vede, in Basilicata sono in gioco interessi enormi: nel relativo dibattito - che vede coinvolti Governo, forze politiche, associazioni ambientaliste, e Regione, dotatasi, in materia, d'importanti competenze con le leggi regionali degli anni '90 – s'inserisce ora anche una "lettera aperta" inviata alla stampa da un giovane disoccupato di Potenza. "Volevo segnalare - scrive il giovane laureato - una grave inadempienza che, secondo me, sta compiendo la compagnia petrolifera Total ai danni dei disoccupati della Basilicata. Mi riferisco ai corsi per le attività di formazione che la società francese sta organizzando in queste settimane per i lavori di costruzione del Centro oli Tempa Rossa di Corleto Perticara" (comune, in provincia di Potenza, nella cui area dovrebbero sorgere 5 dei pozzi petroliferi previsti: con l'aggiunta, nel limitrofo comune di Gorgoglione, del sesto). Nel 2008, la Total, sulla base delle autorizzazioni ricevute da Governo e Regione, bandiva l'appalto per la realizzazione degli impianti di produzione del nuovo Centro oli: appalto che, però, veniva successivamente bloccato dalla magistratura per una presunta questione di tangenti. L'inchiesta – che ha portato all'arresto di varie persone, tra cui alcuni dirigenti della Total, compreso l'amministratore delegato per l'Italia – s'è conclusa ultimamente col rinvio a giudizio degli imputati presso il Tribunale di Potenza. Perché, però, si chiede l'autore della lettera aperta, gli appalti banditi dalla Total nel 2008 per la realizzazione degli impianti sono stati annullati dalla magistratura e rifatti qualche mese fa, mentre quelli per la formazione del personale destinato appunto al futuro Centro oli Tempa Rossa, sono stati confermati così com'erano stati concepiti quattro anni fa, senza alcuna possibilità di far partecipare al bando i giovani laureati o diplomati che cercano lavoro adesso? "Perché – prosegue il giovane laureato- i giovani ...selezionati nel 2008, possono essere riconfermati ora, nonostante in quella fase c'era un'inchiesta della magistratura in corso?" E poi: "Chi gestisce le selezioni per la formazione della Total, direttamente la compagnia petrolifera o c'è una società esterna? In Basilicata ci sono società che possono gestire la formazione della Total?". "Io ritengo – conclude l'autore della lettera - che la Total dovrebbe indire nuovi bandi sulla formazione, così come ha fatto per gli altri appalti... La questione formazione può apparire piccola, invece per noi giovani laureati lucani è una delle poche opportunità che abbiamo per crescere e fare esperienza con una grande multinazionale". Della questione s'è occupato anche il consigliere provinciale di Potenza Vittorio Prinzi (IdV): il quale, in un comunicato, mette in guardia contro il profilarsi dell' ennesima, tipicamente italica, "guerra tra poveri": tra giovani disoccupati che han presentato la domanda nel 2008, per partecipare appunto alle selezioni di personale per il nuovo Centro, e altri che vorrebbero ora la riapertura dei termini."Spetta alle istituzioni in primo luogo e alla politica - sottolinea Prinzi - individuare soluzioni che evitino polemiche tra disoccupati, facendo in modo che si accrescano le opportunità di lavoro nel settore petrolifero lucano".

Fabrizio Federici


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Mobbing da affrontare e combattere

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOCome Consigliera di Parità del Lazio, come donna e come lavoratrice dipendente assisto quotidianamente a situazioni mobbizzanti, mi trovo a interloquire con lavoratori che si sentono mobbizzati e con persone in difficoltà che mi contattano come organo istituzionale, con i poteri conferiti dalla legge, in grado di aiutare coloro che sono o si sentono mobbizzati. Ma spesso i lavoratori o le lavoratrici mobbizzati/e chiedono aiuto quando ormai la situazione è consolidata e vivono in condizioni di grosso disagio psicologico, e senza avere alcun documento che possa dimostrare lo stato dei fatti.

 

Come Consigliera di Parità del Lazio, come donna e come lavoratrice dipendente assisto quotidianamente a situazioni mobbizzanti, mi trovo a interloquire con lavoratori che si sentono mobbizzati e con persone in difficoltà che mi contattano come organo istituzionale, con i poteri conferiti dalla legge, in grado di aiutare coloro che sono o si sentono mobbizzati. Ma spesso i lavoratori o le lavoratrici mobbizzati/e chiedono aiuto quando ormai la situazione è consolidata e vivono in condizioni di grosso disagio psicologico, e senza avere alcun documento che possa dimostrare lo stato dei fatti.

Inoltre spesso i lavoratori sono strumentalizzati per condurre lotte contro i datori di lavoro o per portare avanti diatribe di carattere ideologico. In ogni caso, un intervento preventivo e mirato di professionalità esperte porta sempre un contributo, più o meno decisivo, per una positiva risoluzione delle condizioni discriminanti.

Ecco perché è opportuna la promozione di corsi di formazione in materia di mobbing, mirati a formare le diverse figure professionali coinvolte nella definizione di un caso; in tal modo si creano le condizioni per un’azione sociale che contribuisce ad indirizzare coloro che hanno bisogno di aiuto, evitando ambiguità sul fenomeno che altrimenti inducono a sollecitare una difesa per chi non è effettivamente mobbizzato, e che risulta in tal modo anche utile ad arginare i costi dello Stato (cassa malattia, sostituzione, ferie, servizio sanitario nazionale, lavoratori improduttivi) che verrebbero a gravare sulle nostre tasche di contribuenti se solo si considerano le percentuali attuali e le prospettive di crescita del fenomeno.

In concreto, le condizioni mobbizzanti devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri oggettivi e non suscettibili di discrezionalità interpretativa; non lo sono le situazioni di organizzazione interna sottoposte a osservazioni di carattere soggettivo.

Non voglio, comunque, scendere nei particolari delle definizioni di mobbing, bossing e altre perché ormai è a tutti ben noto l’argomento di cui stiamo parlando. In sintesi, formazione e informazione possono avere uno scopo preventivo importante, ritenuto esigenza fondamentale da giuristi e da esperti del settore. Queste considerazioni mi hanno spinto a volere e a promuovere le settimane sul mobbing organizzate nell’ambito del master biennale «la responsabilità professionale nella medicina specialistica ambulatoriale» il cui direttore è la dottoressa Anna Chillà. Le giornate conclusive sul mobbing si sono svolte il 12 e 13 giugno.

Agli incontri rivolti a medici, psicologi, psichiatri e avvocati sono intervenute le diverse figure professionali a relazionare ognuno per le proprie competenze. Si è parlato dei pregi e difetti della riforma Biagi e del nuovo contratto collettivo nazionale dei lavoratori dipendenti 2002-2005, del ruolo dello psichiatra e dello psicologo e della Consigliera di Parità.

Come Consigliera di Parità ho promosso e presieduto gli incontri sul mobbing in quanto la mia figura, per le competenze tecniche e per i poteri di intervento che le sono conferiti dalla legge 125/91 e dal successivo decreto legislativo 196/2000, ha in questo campo un ruolo conciliativo- propositivo e processuale.

La Consigliera dopo aver accertato la sussistenza dei comportamenti con elementi di fatto idonei che confermino in termini precisi e concordanti la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti che producano casi di mobbing e di discriminazioni in genere, propone il tentativo di conciliazione formale o informale. La Consigliera può proporre soluzioni alle controversie collettive proponendo e collaborando alla formulazione di progetti di azioni positive oppure dando il termine di 120 giorni per l’attuazione dei piani di azione per la rimozione delle cause se l’autore del comportamento illecito è il datore di lavoro. Quando il tentativo di conciliazione ha esito positivo il verbale redatto nell’Ufficio della Consigliera, in copia autenticata, acquista forza di titolo esecutivo con decreto del Tribunale in funzione di giudice del Lavoro.

Quando non si raggiunge una conciliazione la Consigliera propone ricorso davanti al Tribunale in funzione di giudice del lavoro o al Tribunale amministrativo territorialmente competente, anche qualora ritenga opportuno in via d’urgenza, in cui il giudice intima l’attuazione di un piano di rimozione della condizione discriminante e mobbizzante e i termini di attuazione.

L’inottemperanza alla sentenza del giudice è punita ai sensi dell’articolo 650 del codice penale e la revoca dei benefici accordati al datore di lavoro ai sensi delle vigenti leggi dello Stato. Poiché quanto esposto si applica pure a casi di discriminazione legate al sesso, va da sé che l’applicazione del decreto legislativo 196/2000 è più incisiva se si dimostra che sono stati discriminati maggiormente i lavoratori dell’uno o dell’altro sesso per appartenenza ad un genere rispetto ad un altro.

Una particolarità significativa è che l’onere della prova incombe sul datore di lavoro, il quale peraltro, qualora dimostri l’insussistenza dei fatti può procedere al licenziamento.

Certamente quando si affrontano i casi di mobbing si affronta una complessa materia giuridica in cui entrano in gioco questioni di lavoro, di tutela dei diritti umani e di discriminazioni.

Ritengo utile a tale riguardo segnalare che, mentre una legge nazionale sul mobbing non esiste ancora, la regione Lazio con la legge 11 luglio 2002, anche se dichiarata incostituzionale per incompetenza, ha il merito di aver dato per prima una definizione di mobbing.

Nel frattempo la giurisprudenza cui far riferimento è offerta dalle precedenti sentenze.

Inoltre, il lavoratore può avvalersi di tali tutele pure per situazioni pregresse, anche una volta cessato il rapporto di lavoro.

Nella ricostruzione di un caso di mobbing è importante il ruolo del medico competente istituito per legge nei luoghi di lavoro, che può attestare la situazione psicologica del dipendente.

Un ruolo altrettanto fondamentale è svolto anche dagli psicologi e psichiatri, che in un primo momento devono distinguere se si tratta di una sindrome da disadattamento cronico o di una sindrome postraumatica da stress cronico e successivamente procedere con le cure del caso. È importante segnalare a tale riguardo che con la circolare Inail 71/2003 il mobbing è stato riconosciuto come malattia professionale non tabellata da costrizione psicologica sul lavoro, e come tale è risarcibile dopo accertamento e quantificazione dei danni.

Come già detto, la principale difficoltà nell’affrontare le situazioni di mobbing è costituita dalla necessità di dimostrare i fatti con prove e testimonianze, ecco quindi che un’adeguata formazione del personale coinvolto nell’analisi delle circostanze si può meglio prevenire e aiutare a rendere giustizia in quei casi che effettivamente costituiscono situazioni di mobbing che, se non contrastate, possono creare grossi danni individuali e sociali.

 

Stefania De Luca*

Consigliera di Parità della Regione Lazio


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Handicap e ambiente di lavoro: questione di norme

L’esigenza di affrontare questo argomento nasce dalla rilevata difficoltà di identificare quelli che sono gli «obblighi» del datore di lavoro, sia pubblico che privato, nei riguardi del lavoratore portatore di handicap. È corretto precisare che si tratta di una difficoltà tra virgolette poiché, probabilmente, ci si nasconde spesso dietro la mancanza di disposizioni espresse.

 

L’esigenza di affrontare questo argomento nasce dalla rilevata difficoltà di identificare quelli che sono gli «obblighi» del datore di lavoro, sia pubblico che privato, nei riguardi del lavoratore portatore di handicap. È corretto precisare che si tratta di una difficoltà tra virgolette poiché, probabilmente, ci si nasconde spesso dietro la mancanza di disposizioni espresse. E’ ovvio per tutti i giuristi, ma deve esserlo anche per chiunque abbia il potere di incidere nella sfera soggettiva di altre persone, che le norme vigenti non sono soltanto quelle che trovano puntuale formulazione in specifiche disposizioni di legge, essendo altrettanto vincolanti i principi desumibili attraverso l’interpretazione o il riferimento alla disciplina posta in materie analoghe. Non si tratta di risorse utilizzabili a discrezione, ma di tappe obbligatorie per definire il complesso di norme che disciplina una data materia.

In materia di sicurezza negli ambienti di lavoro, il riferimento normativo principale è indubbiamente il Decreto Legislativo 626/1994, che individua una serie di misure generali da adottare per garantire la protezione e la sicurezza dei lavoratori. In alcuni articoli (gli articoli 30 e 33) si fa espresso riferimento alla necessità di tener conto di eventuali lavoratori portatori di handicap, soprattutto in determinate unità ambientali (ad esempio: scale, porte, vie di circolazione, docce, gabinetti e posti di lavoro).

Così in tema di barriere architettoniche, sia la legge 13/1989 che il D.P.R. numero 503 del 1996 insistono sulla necessità di garantire l’accessibilità negli spazi, interni ed esterni, alle persone con ridotta capacità motoria o sensoriale, adottando ogni accorgimento utile a migliorarne la fruibilità e la sicurezza, soprattutto in situazioni di pericolo improvviso. Al di là delle prescrizioni citate, il nucleo forte di principi da cui ricavare le norme concrete di tutela è nella Costituzione, agli articoli 2, 3, 4 e 38. Il più importante è indubbiamente il principio di eguaglianza, presupposto fondamentale di ogni altra disposizione in materia. Il concetto di eguaglianza va inteso correttamente come principio sostanziale, non formale.

Non garantisce, cioè, un piatto egualitarismo ma, nel rispetto delle reciproche diversità, assicura un trattamento uguale in situazioni uguali e diverso in situazioni diverse. L’articolo 10 della legge 68/1999 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili) ha fatto propria la sostanza di questo principio, estendendo espressamente ai lavoratori disabili lo stesso trattamento normativo ed economico degli altri lavoratori. Proclamare l’eguaglianza è certamente più facile che realizzarla concretamente.

Eppure, si tratta di un obbligo, non di una scelta. In materia di sicurezza il datore di lavoro non potrà opporre l’assenza di specifiche prescrizioni a tutela dei disabili se queste sono desumibili attraverso un’interpretazione sistematica delle norme che tutelano la sicurezza degli altri lavoratori. Affermare che il lavoratore disabile è uguale a tutti gli altri lavoratori significa metterlo in condizioni di esercitare concretamente gli stessi diritti e godere delle stesse opportunità. Ciò comporta che l’ambiente di lavoro debba essere concepito e strutturato in modo tale da consentire a tutti gli stessi margini di libertà ed autonomia.

Nella valutazione dei rischi di cui parla l’articolo 3 del Decreto Legislativo 626/1994, il datore di lavoro dovrà considerare, dunque, le esigenze specifiche dei lavoratori disabili alle sue dipendenze, adottando eventuali misure ad hoc che reputi idonee per una tutela effettiva.

Si ricorda, a tal fine, che il concetto di «idoneità» nel diritto civile è ampio e comprende tanto le misure espressamente imposte dalla legge quanto quelle «ulteriori» che si ritengano necessarie nel caso concreto.

 

Daniela Zavaglia*

Avvocato del Foro di Roma


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La riforma del mercato del lavoro

Le novità delle riforma Biagi in materia di lavoro.

 

In data 31 luglio 2003 il Consiglio dei Ministri ha approvato il testo definitivo del Decreto legislativo in attuazione dei principi contenuti nella Legge 30 14 febbraio 2003, in materia di occupazione e mercato del lavoro, nota come «riforma Biagi».

Il provvedimento, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 9 ottobre, recependo gli orientamenti comunitari in materia, introduce nel nostro ordinamento nuove figure contrattuali finalizzate all’ottenimento di una maggiore flessibilità della prestazione lavorativa.

In particolare la normativa volge a modificare ed integrare la disciplina dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co. Co. Co.) che pur mantenendo i caratteri peculiari della prestazione autonoma senza vincoli di subordinazione, saranno possibili solamente nel rispetto di precisi requisiti.

Tra detti requisiti spicca la previsione di un «progetto o parte di questo» funzionale ed essenziale sia per la costituzione del rapporto di collaborazione che per lo svolgimento di questo.

Si sottolinea che, qualora venga accertata giudizialmente l’assenza della progettualità nel rapporto così instaurato, questo si trasformerà in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

La disciplina del «lavoro a progetto» sostituirà quella delle collaborazioni coordinate e continuative, ma, quelle in essere al momento del vigore delle nuove disposizioni resteranno valide sino alla loro scadenza e comunque non oltre un anno dalla vigenza della normativa in questione.

Rivoluzionario invece è l’introduzione della nuova disciplina sulla somministrazione di personale: il provvedimento, nel proseguire la strada intrapresa dalle norme sul lavoro interinale verso la liberalizzazione del mercato del lavoro, contiene l’espressa abrogazione del divieto di somministrazione di manodopera e quindi della legge 1369/60.

In base ai nuovi principi introdotti, il datore di lavoro potrà ricorrere alla somministrazione di personale anche a tempo indeterminato rivolgendosi ai soggetti debitamente autorizzati.

Al fine di tutelare il lavoratore sarà vigente il principio della garanzia della solidarietà tra fornitore e utilizzatore per tutte le obbligazioni verso il lavoratore.

Resta fermo che, in caso di violazione delle disposizioni riguardanti la legittimità di detti contratti, il lavoratore potrà ricorrere al Giudice del lavoro, con la procedura di cui all’articolo 414 del codice di procedura civile, la trasformazione del rapporto così instaurato in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con effetti dall’inizio del rapporto.

Il contratto di somministrazione (detto anche «job leasing ») pertanto, avrà una duplice connotazione, dando luogo ad un rapporto di fatto tra il lavoratore e l’utilizzatore alle cui dipendenze si svolge la prestazione; ad un rapporto di diritto tra il lavoratore e l’agenzia di somministrazione.

Non sono previsti limiti temporali all’utilizzo della somministrazione, ma il ricorso a tale tipologia è ammesso solo in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo e organizzativo. Altra novità introdotta dall’emanando decreto è l’istituto della certificazione dei rapporti di lavoro.

Tale strumento, finalizzato anche alla riduzione del contenzioso giuslavoristico, permetterà, per mezzo dell’assistenza di Enti autorizzati a tal fine, di dare una maggiore stabilità al contratto di lavoro.

La certificazione infatti, costituisce una preventiva dichiarazione di «conformità alla legge» delle parti stipulanti e che, nell’economia processuale, avrà la valenza di una presunzione.

Tale nuovo istituto sarà anche utilizzabile in sede di transazione e rinuncia.

Tra le novità spiccano quelle riguardanti i contratti a contenuto formativo, con la soppressione dei contratti di formazione e lavoro e l’introduzione dei contratti di «inserimento» e dei nuovi contratti di apprendistato.

E’ stata prevista la possibilità, per tutte una serie di prestazioni occasionali (es. giardinaggio – lavori domestici – ripetizioni scolastiche), di ricevere a titolo di corrispettivo dei «bonus» di valore limitato, che il prestatore provvederà a cambiare in denaro liquido presso l’emittente; tale previsione dovrebbe favorire l’emersione del «lavoro nero » e quindi l’evasione contributiva e fiscale.

In conclusione di questa parziale illustrazione del provvedimento, entrato in vigore il 24 ottobre, è opportuno sottolineare che molti degli istituti da questo previsti non avranno immediata vigenza, visti gli ampi rimandi a successivi provvedimenti ministeriali ed alla contrattazione collettiva.

 

Domenico Ruggeri


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Ma qual è il giudice competente?

Processi al lavoro.

 

Il Decreto Legislativo 80 del 1998 ha attribuito al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, la competenza in materia di controversie relative ai rapporti di lavoro del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni comprese quelle concernenti l’assunzione al lavoro, lasciando alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Tale norma, successivamente inserita nel Testo Unico sul Pubblico Impiego, è stata oggetto di contrastanti interpretazioni che hanno dato origine a due “scuole di pensiero”, la prima delle quali ritiene che al giudice amministrativo sia devoluta la competenza delle sole procedure concorsuali cosiddette “esterne”, tese cioè all’assunzione di nuovi dipendenti e che al giudice ordinario spetterebbe quella relativa alle procedure concorsuali cosiddette “interne” finalizzate alla promozione e progressione di dipendenti già assunti.

Secondo, invece, l’altro orientamento, la norma in parola va interpretata in senso estensivo essendo chiaro che il legislatore ha voluto attribuire ad un unico giudice, quello amministrativo, tutte le procedure concorsuali sia cosiddette interne che esterne vuoi perché la materia dei concorsi pubblici attiene a interessi legittimi e non, invece, ad interessi soggettivi da sempre di competenza del Giudice Ordinario, ma anche perché, in caso di più impugnative di un concorso nazionale, varrebbe la competenza esclusiva del TAR Lazio e non di vari giudici ordinari dislocati su tutto il territorio nazionale che, in relazione alla medesima fattispecie, potrebbero pronunciarsi in modo differente.

La prima tesi trova fondamento in alcune pronunce della Corte di Cassazione che ripercorrono il contenuto della sentenza 128 del 22 marzo 2001 affermativa del principio della generale giurisdizione della magistratura ordinaria con le eccezioni previste per le procedure concorsuali cosiddette “interne” di competenza del giudice amministrativo.

La seconda tesi trova fondamento nell’ordinanza numero 2 del 2001 della Corte Costituzionale che ritiene, invece, la materia di esclusiva competenza della giustizia amministrativa.

Proprio in virtù di tali dispute dottrinarie, in questi ultimi anni si è scatenata una vera e propria “psicosi da competenza” che ha finito per danneggiare l’anello più debole della catena: il pubblico dipendente.

La soluzione sembra essere il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Più avvocati, infatti, in presenza di un rigetto della domanda da parte del giudice ordinario, si stanno orientando verso tale tipo di ricorso che, oltretutto, non necessita di grosse spese di giudizio e viene deciso in tempi ragionevoli.

Ma, proprio nel momento della massima confusione, ecco che una voce isolata si è levata da questo coro stonato: una recente sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Lucca del 23 gennaio 2002 che sembra segnare una strada per il futuro.

Il magistrato, infatti, chiamato a pronunciarsi sull’attribuzione di un punteggio non assegnato dalla commissione esaminatrice di un concorso per dirigenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in totale controtendenza all’orientamento della Corte di Cassazione, ha dichiarato la propria incompetenza per materia a giudicare ritenendo che la giurisdizione di legittimità, in relazione alle procedure concorsuali, spetti sempre al giudice amministrativo.

Nella lunga e articolata sentenza di cui per brevità si riporta solo il contenuto delle parti più salienti, il giudice parte dal terzo comma dell’articolo 97 della Costituzione secondo cui “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” norma che la Corte Costituzionale ha interpretato come riferita tanto al primo accesso quanto alla qualifica funzionale superiore (intesa come accesso ad un diverso posto della pianta organica, comportante lo svolgimento di mansioni e funzioni nuove e superiori) ed anzi, quest’ultimo passaggio va correttamente equiparato al primo accesso; ne consegue che il passaggio ad una fascia funzionale superiore, poiché comporta l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, corrispondente a funzioni più elevate, è da equiparare al primo accesso all’impiego comportando funzioni differenziate rispetto a quelle in precedenza esercitate in relazione alle quali è necessario un nuovo e diverso accertamento di idoneità.

Ne consegue, secondo il predetto magistrato, che l’accesso ad un nuovo posto di lavoro, diversamente a quanto ritenuto dalla Corte di Cassazione, “…comporta sempre una novazione del rapporto di lavoro, modificandosi l’oggetto e le connesse responsabilità, fermo restando la continuità del rapporto ai fini contributivi e previdenziali”.

In conclusione, in presenza di procedure selettive dirette all’accesso ad un posto della dotazione organica, stante la previsione dell’articolo 97 della Costituzione, “…non vengono e non possono venire in rilievo diritti soggettivi, ma soltanto interessi legittimi.

E tale conclusione giustifica di per sé l’attribuzione alla giurisdizione di legittimità dell’A.G.A. delle controversie in parola, essendo riservato costituzionalmente al giudice amministrativo la cognizione degli interessi legittimi”.

Alla luce di tale decisione di un giudice ordinario che, schierandosi contro una consolidata giurisprudenza “di parte” della Cassazione, dichiara la propria incompetenza in favore del giudice amministrativo (di concorrenza), si spera che sia stato aperto un “varco” nell’intricata questione.

 

Sergio Trinchella


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