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Diritto

Riforme legislative ed esigenze della giustizia

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOL'attuale percorso formativo dell'ordinamento giuridico del nostro Paese costituisce fedele e significativa attuazione dell'indirizzo della società contemporanea, fermamente determinata nelle scelte di vertice a favorire l'incremento costante e ininterrotto dei consumi e dunque delle esigenze della economia globale. In questa ottica vanno viste e lette, per un verso le riforme legislative, per altro verso l'inerzia totale del potere politico rispetto alla crisi e alle esigenze della giustizia, per altro ancora la sostanziale impotenza dei corpi sociali e di chi li rappresenta come ad esempio il sindacato. Sulla spinta delle esigenze della economia mondiale e dei poteri forti che la rappresentano si fa strada l'opinione che la certezza del diritto non può e non deve ostacolare l'interesse dei produttori e dell'alta finanza all'incremento indifferenziato illimitato e costante dei consumi. I poteri forti – banche e grandi imprese di dimensione ormai largamente ultranazionali – non tollerano più le remore del sistema dei diritti che si affievolisce ogni giorno di più. Mi attardo in qualche esempio. La riforma del diritto fallimentare con la previsione di condizioni del fallimento sempre più limitative, con l'ampliamento delle ipotesi di concordato, con la previsione gli accordi di ristrutturazione, della esdebitazione, non è stata altro che un consapevole e totale sacrificio dei diritti dei creditori a vantaggio della sopravvivenza dell'impresa e dell'avventurismo imprenditoriale. Così pure esemplificando, per altro verso, le pretese riforme della giustizia che affidano l'esito delle impugnazioni alla sottigliezza delle compilazione stilistiche in appello e in cassazione sono la deliberata e consapevole violazione, anzi il rifiuto, del buon diritto. Non diversamente gli istituti della mediazione, costituenti un alibi alle mancate riforme della giustizia, che necessita invece di investimenti in strutture e personale senza le quali il sistema giudiziario è del tutto inaffidabile: in civile per la durata dei processi, in penale per la pioggia delle prescrizioni. Ciò non accade per caso ma è l'effetto di una consapevole e deliberata svalutazione del servizio e di una guerra inarrestabile dei poteri forti le contro la certezza del diritto vista come un ostacolo all'economia libera e senza freni nonchè al disinvolto finanziamento della classe politica. Complice è una comunicazione di massa non disinteressata, quella pubblicitaria, impegnata a creare bisogni non sulla base della bontà dei prodotti ma tentando suggestioni fantastiche o puramente verbali. Come trascurare una recente messaggio pubblicitario che così rassicura, se ben ricordo, il pubblico: "Io sono Buono se tu compri il mio Bueno". Ugualmente significativo nella sterminata serie di messaggi dell'industria automobilistica è l'immagine di una autovettura che sembra navigare nel cosmo insieme a una astronave. Senonchè la felicità individuale non sta nella quantità dei consumi ma nella necessità degli stessi rispetto alla aspettative individuali, quelle vere non quelle create dalla pubblicità. Chi viaggia su una Ferrari avendo accanto una bionda superdotata è, nella opinione comune, più felice di chi viaggia su una modesta utilitaria accanto a una compagna meno vistosa. Non è così se non nella persuasione pubblicitaria. Io, ad esempio, avvezzo a modeste utilitarie, mi sentirei molto a disagio alla guida della Ferrari e ancor più nei confronti della bionda e avvenente compagna, titolare, si può supporre, di straordinarie aspettative. La corsa ai consumi non è la corsa verso la felicità se l'incremento dei consumi avviene a prezzo di grandi sofferenze, di sacrifici non lievi e della sofferenza di nostri simili Grande e perfino miracolosa la recente risposta del Papa a un interlocutore: "Io non sono comunista. Ho letto il Vangelo". Nel percorso che ho descritto gli Avvocati hanno un ruolo fondamentale in difesa dei diritti individuali piccoli e grandi che non possono cedere il passo agli avventurismi dell'economia dei consumi e delle inevitabili ricadute di questa sull'ordinamento giuridico. Peraltro in queste riflessioni non sono guidato da vocazioni moralistiche convinto come sono che ognuno può costruire come vuole la sua vita. Sono invece consigliato dal timore, rappresentato da autorevole pensatori che il percorso dell'incremento dei consumi, a tutti i costi e senza fine, si concluderà in una immane tragedia collettiva della quale è già segno il moltiplicarsi continuo dei conflitti ai quali fanno da causale solo apparente i contrasti ideologici ma da motivazione reale la necessità dei Paesi forti di estendere senza limiti i confini dei propri mercati.

Giorgio della Valle

Avvocato del Foro di Roma

Letture consigliate

Erich Fromm - Avere o essere – Mondatori 1979


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Normativa R.C.A.: deriva indennitaria

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOQualora si volesse realmente trovare una soluzione che contemperasse la coesistenza dei diritti inviolabili dei cittadini danneggiati a un integrale risarcimento del danno con quelle legittime e non meramente pretestuose dell'imprenditoria assicurativa la prima ricetta dovrebbe essere quella di abrogare il sistema del risarcimento diretto. Questo sistema, operativo dal 2007, ha causato solo problematiche interpretative, non sempre risolvibili per alcune casistiche, snaturando persino consolidati istituti processuali, ha causato aumenti dei costi assicurativi e forte sperequazione tra i grandi gruppi assicurativi e quelli minori (come peraltro evidenziato anche nell'indagine dell'A.G.C.M., con ulteriori negativi riflessi sulla reale concorrenzialità del mercato, sempre a scapito degli assicurati. Nonostante la Corte Costituzionale si sia espressa per la facoltatività del risarcimento diretto e l'Antitrust ne abbia, dopo averlo inizialmente perorato, più volte dichiarato il fallimento, le Compagnie hanno continuato a chiedere al legislatore di rendere la norma obbligatoria e comunque a insistervi con ogni mezzo, anche ostruzionistico in fase stragiudiziale e persino processuale. Se in un primo momento questo è sembrato a molti incomprensibile ora, viste le nuove proposte normative contenute nei nuovi progetti contenuti sia nella c.d. "risoluzione Gutgeld", sia nel c.d. pacchetto Vicari, divenuto ora D.L. 145/2013, si è finalmente reso comprensibile anche ai meno sospettosi il vero scopo del risarcimento diretto: il controllo totale del risarcimento dei danni da parte dei grandi gruppi assicurativi. Ecco che rivede la luce la strategia che la leggenda attribuisce ad Ulisse: introdurre tra i bastioni dei diritti risarcitori una figura apparentemente innocua e persino vantata come benefica, il risarcimento diretto. Esso venne invocato infatti come importante e proficuo per il danneggiato perché avrebbe consentito un maggior rapporto di prossimità, maggiore fiducia e controllo nei confronti del proprio assicuratore, velocità del risarcimento e quindi minori costi delle polizze. Di tutte queste meravigliose cose promesse praticamente nessuna si è verificata. Anche offerta risarcitoria tempestiva non significa offerta congrua o motivata, specialmente nel caso di lesioni personali. La velocità relativa (e molto interessata) della prima offerta risiede peraltro nel sistema CARD che avvantaggia l'impresa che per prima accede al fondo cassa, salvo richiesta arbitrale di cui alla procedura interna. Il vero scopo del risarcimento diretto risiede quindi nel tentativo di controllare direttamente, tutta la c.d. "filiera dei risarcimenti". Ecco il perché di tanta determinazione delle imprese maggiori a volerlo come obbligatorio. Questo sistema consente più agevolmente di poter introdurre vincoli contrattuali nelle polizze dei propri assicurati: dalla gestione del risarcimento materiale, tramite controllo della fase delle riparazioni, allo scoraggiamento (o addirittura al divieto legale) della cedibilità del credito risarcitorio per impedire che a un creditore debole se ne sostituisca uno più tecnicamente attrezzato; dagli adempimenti relativi alle visite mediche, alla presentazione dei testimoni e persino all'introduzione di un nuovo istituto in ambito del risarcimento del danno da circolazione definito come decadenza dal diritto qualora non venga inoltrata entro tre mesi la prima richiesta risarcitoria. A parte le problematiche giuridiche che inevitabilmente nasceranno e che vedranno Avvocati e Magistrati alle prese con nuove problematiche, quello che appare evidente è la fortissima determinazione delle imprese assicuratrici a smarcarsi da ogni obbligo risarcitorio tentando di introdurre un puro sistema indennitario sotto il loro stretto controllo. Le imprese di assicurazione e per loro l'A.N.I.A. che le rappresenta politicamente hanno certamente diritto a chiedere qualsiasi cosa sia per loro economicamente vantaggiosa, pur sempre nei limiti della veridicità dei dati che esse stesse forniscono e dei loro scopi sociali, ma quello che sorprende sempre di più è che i Ministeri competenti, prima l'ISVAP e ora anche la "Fenice" IVASS e ormai anche uno contraddittorio Antitrust, siano sempre più in sintonia con i desiderata delle Assicurazioni piuttosto di rilevare che la vera causa degli aumenti tariffari è costituita da un mercato non concorrenziale, non efficiente e in mano solo a quattro gruppi assicurativo-finanziari. La gestione dei sinistri è lasciata spesso a operatori esterni valutando il danno sempre più in funzione economico-statistica. La lotta alle frodi, tanto apparentemente e mai sostanzialmente voluta dall'ANIA, si fa prima di tutto con la presenza sul territorio di strutture e professionisti tecnicamente preparati mentre le Compagnie, negli ultimi anni hanno invece smantellato, senza un contrasto deciso dell'ISVAP, centinaia di ispettorati, relegando la liquidazione dei danni ad anonimi Call Center centralizzati preparati solo a gestire la "cartolarizzazione" dei sinistri tramite la procedura di risarcimento diretto (loro dicono non a caso indennizzo) e senza alcun controllo sostanziale sulla veridicità e sulle stesse criticità interne nella gestione degli stessi a partire dall'esame delle riserve tecniche. Ecco quindi l'altro pilastro della soluzione: concorrenza, tutela del danneggiato, presenza sul territorio, indipendenza e libertà di scelta, queste le parole per tornare ad un mercato assicurativo equilibrato. Tutto il resto come l'eventuale approvazione di ulteriori norme che vengono proposte e "vendute" per ridurre i costi delle polizze saranno solo ulteriori fonti di limitazione dei diritti.

Settimio Catalisano

Avvocato del Foro di Roma

Coordinatore della Commissione R.C dell'O.U.A


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Riforma forense: "Quo vadis"?

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOCari amici, in questi ultimi tempi non si fa che un gran parlare tra crisi politica, crisi economica, Cassazione ecc., riforma elettorale, funzionamento della giustizia ecc., dimenticando argomenti che, seppur più tecnici, pesano sulle spalle di noi avvocati. Uno tra i tanti la riforma forense: ricordate le dispute, le polemiche, le domande e quant'altro di mesi fa? Personalmente mi viene da chiedermi "Che fine ha fatto baby Jane?". Tante, come sappiamo, sono state le novità introdotte dalla riforma e una di esse era, appunto, l'esercizio della professione forense mediante l'obbligatoria costituzione di società di capitali esclusivamente tra professionisti. A distanza di nove mesi dall'approvazione della riforma forense, come un vero parto, la società tra avvocati pare "non s'ha da fare", perché la legge che ha riformato l'ordinamento professionale, dal 4 agosto ultimo scorso non ha ufficialmente avuto seguito per quanto concerne i sodalizi professionali tra avvocati. Infatti, la riforma ha affidato all'esecutivo una delega puntuale in materia, scaduta agli inizi del mese di agosto 2013: il governo, secondo la riforma forense, avrebbe dovuto emanare entro sei mesi dall'entrata in vigore della stessa un decreto legislativo per determinare l'esercizio della professione di avvocato in forma societaria. Tuttavia, per una precisa scelta, l'esecutivo non ha dato attuazione alla delega in questione trattandosi, secondo quanto affermato dal sottosegretario di turno, di una esplicita scelta politica del governo per non incorrere in nuove condanne da parte della UE con la "creazione di una disciplina speciale". Secondo quanto indicato nel testo di legge, lo svolgimento dell'attività forense era consentito in maniera esclusiva ad unioni in forma societaria partecipate da avvocati iscritti all'albo professionale dell'Ordine di appartenenza. Se ne ricavava, a contrario, un divieto per gli avvocati di dare vita a gruppi interprofessionali, costituiti da avvocati ed altri professionisti. Del resto, la legge n. 247/2012 aveva modificato la legge 183/2011, nella parte in cui quest'ultima introduceva "la facoltà" pe ogni tipologia di professione di dar vita ad una società di professionisti iscritti nei rispettivi ordini. La riforma forense del 2012 aveva, invece, introdotto una vera restrizione che, a seguito del mancato esercizio della delega, è rimasta solo scritta su carta. Le reazioni ad una simile scelta politica sono, come è ovvio, diverse e contrastanti. All'atto pratico, le conseguenze di tale indirizzo sull'avvocatura quali sono? Innanzi tutto non c'è più l' "obbligo" di esercitare la professione mediante la costituzione di società di capitali ma, una tale soluzione resta nella libertà di scelta degli avvocati e dei singoli studi. E laddove le soluzioni e le modalità di azione sono poste sotto forma di libertà di scelta, resta senza dubbio salvaguardata, appunto, la libertà, l'indipendenza e l'autonomia della professione forense, nel rispetto assoluto delle caratteristiche fondamentali che contraddistinguono il quotidiano lavoro dell'avvocato. Al di là dei dibattiti, delle scelte che si fanno e delle condivisioni o meno della non attuazione dell'obbligatoria costituzione delle società di capitali, allo stato dei fatti, riflettendoci, resta salvaguardata effettivamente la libertà dell'avvocato. Non si può imprigionare come una corda al collo l'attività dell'avvocato a situazioni e realtà che con il senso profondo della professione forense non hanno nulla a che vedere, come, appunto, la forma di società di capitali. La prima cosa che si apprende già dall'università è che, al di là delle aspirazioni di ciascuno, l'avvocato è un "libero" professionista e, se il vocabolario non tradisce, in quanto tale scevro da forme di dipendenze da qualsivoglia struttura o potere forte. Ebbene è questa "libertà" che costituisce l'essenza primaria del lavoro dell'avvocato, che sarebbe stata "contraddetta" con l'istituzione obbligatoria di società di professionisti, anche a scapito della tutela del cittadino.

Paola Tullio

Avvocato del foro di Roma

Addetto stampa di A.T.R.


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Agonisti o amatori: chi decide?

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOE' nozione ben nota che nel nostro ordinamento giuridico le pronunce della Corte di Cassazione sono inoppugnabili, ma è altrettanto pacifico che esse, pur rappresentando un autorevole precedente giurisprudenziale, non vincolano i giudici di merito nelle loro successive determinazioni. Quindi non vi è alcun obbligo giuridico di attenersi ai principi espressi dalla Suprema Corte, anche se poi raramente Tribunali e Corti d'Appello se ne discostano, almeno fino a che nel tempo i giudici di piazza Cavour non modificano il loro indirizzo giurisprudenziale. Questa premessa si è resa necessaria perché in questi giorni si parla molto della sentenza n° 15394/2011 emessa appunto dalla Corte di Cassazione nell'ambito di un giudizio intentato nei confronti di un Ente di Promozione Sportiva. Con tale decisione, tra l'altro, l'EPS nazionale si è visto condannare al risarcimento dei danni derivati dalla morte di un giocatore nell'ambito di un torneo organizzato da un suo Comitato Provinciale, mentre nel contempo è stata valutata come attività agonistica la partecipazione al suddetto evento. Tralasciando di valutare l'ambito sostanziale del relativo giudizio, in questa sede preme evidenziare due pericolosi principi di diritto che scaturiscono dalla decisione della Suprema Corte, principi che minano l'autonomia dei nostri enti. Innanzitutto un forte attacco viene portato alla previsione dell'autonomia gestionale ed amministrativa dei Comitati periferici nel momento in cui la Suprema Corte afferma che tale autonomia deve essere interpretata in maniera oltremodo restrittiva quando i terzi non hanno a disposizione un sufficiente patrimonio di riferimento da attaccare al fine di tutelare i propri eventuali diritti. Vogliamo semplificare al limite del paradosso? Questo principio se allargato a dismisura potrebbe condurre a ritenere i padri tenuti al risarcimento dei danni provocati dai figli maggiorenni! Tornando a noi, seppur legittima appare la volontà di offrire la massima tutela ai terzi danneggiati, di certo non si può invocare, come fa la Cassazione, l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 2049 del codice civile, cioè di quella norma che sancisce la "responsabilità dei padroni e dei committenti" per i danni arrecati dai fatti illeciti commessi dai loro sottoposti nell'esercizio delle proprie funzioni. Appare infatti evidente che nessun rapporto di subordinazione, se non gerarchico ma di contenuto politico/associativo, lega struttura centrale ed organi periferici di un EPS e quindi i responsabili di questi ultimi non sono legati alla dirigenza nazionale da un rapporto di lavoro subordinato. Tornando alla sentenza anche un altro aspetto di essa appare poco convincente, quando cioè la Cassazione denuncia la scarsa chiarezza delle norme regolamentari interne. Quasi tutti gli statuti degli EPS sanciscono in maniera netta e precisa l'autonomia gestionale ed amministrativa della periferia rispetto al centro, e pertanto il terzo ha elementi più che esaustivi per comprendere che l'organizzazione, e quindi la responsabilità, di un evento promosso da una struttura locale non coinvolge l'EPS nazionale. Altro aspetto "pericoloso" della sentenza risiede nel principio, espresso in guisa forse un po' semplicistica, in base al quale in ogni occasione in cui lo scopo del gioco è la vittoria ci si trova alla presenza di una attività agonistica, con tutte le conseguenze di natura sanitaria. Anche qui per un attimo lasciamoci andare alla ricerca del paradosso: se dieci ragazzini organizzano una partitella di pallone in cortile lo fanno per perdere? No di certo, ed allora i genitori devono procurarsi un certificato di sana e robusta costituzione? E se quei dieci ragazzini aderiscono ad una ASD per partecipare ad un torneo amatoriale, quale certificazione sanitaria deve pretendere la società, quella relativa all'attività amatoriale o agonistica? E se quei ragazzini crescendo vengono impegnati in campionati ufficiali diventano o meno agonisti? In tutte queste fasi giocano per vincere, come lo fanno gli adulti che partecipano a tornei amatoriali, ma ciò non vuol dire che si trasformino in agonisti. Peraltro la Cassazione nella sua sentenza omette nella maniera più assoluta di prendere in considerazione il DM 18/2/1982 inerente la tutela sanitaria dell'attività sportiva. Detto decreto infatti sancisce la competenza di FSN ed EPS in ordine alla definizione dell'attività agonistica e di quella amatoriale, con le conseguenze del caso per quanto attiene gli aspetti di tutela sanitaria. Ben venga il potenziamento di quest'ultima, ed il Parlamento è impegnato proprio a ricercare l'emissione di norme più efficaci, ma senza farsi coinvolgere, nei deprecati casi di eventi luttuosi, dall'emotività, rimanendo in sintonia con le leggi vigenti.

Alessandro M. Levanti

Avvocato del Foro di Roma

Vice Presidente ASI


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Dov'è lecito consumare i pasti in missione?

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLONella gerarchia delle fonti le circolari ministeriali e le note circolari dirigenziali non hanno in genere valore normativo alcuno, ad esse non potendosi annettersi l'effetto di produrre diritto, neppure a livello integrativo. Le circolari possono avere anche contenuto ordinatorio, ma nei soli limiti in cui un potere d'ordine effettivamente configurabile alla luce del rapporto di stretta gerarchia istituito dall'ordinamento superiore e tanto con effetti nei soli riguardi dei sottoposti e purché esista una norma primaria che legittimi la disposizione impartita. Difettando tali condizioni, alle note richiamate deve riconoscersi valenza di mere sollecitazioni a seguire una determinata interpretazione, senza che le stesse possano ritenersi in alcun modo suscettibili di incidere su situazioni giuridiche soggettive derivanti dalle disposizioni di rango primario o regolamentare (come ribadito in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità, Cass., 9 marzo 2012, n.3757, RV.621927, Cass., 14 febbraio 2002, n.2133, RV.552288). Alla luce di ciò, è lecito domandarsi se una circolare del Tesoro/Finanze, Ragioneria Generale dello Stato (la n. 71 dell'11.9.1992 e altra analoga n. 3 dell'11.7.2003) possa imporre al dipendente statale in missione la consumazione del pasto, per cui è previsto il rimborso della spesa, nella sola località di missione e non in una viciniore, fuori dall'orario di lavoro e senza pregiudizio o limitazione alcuna per la prestazione dell'attività lavorativa medesima. Soccorre al chiarimento l'accoglimento (d.P.R. 7.11.2001), pubblicato nel Bollettino del Ministero della Giustizia (anno 2002, n.3, pag.82), del ricorso straordinario al Capo dello Stato, avanzato da un dirigente ispettore dell'amministrazione giudiziaria, contro il diniego di rimborso delle somme erogate dal ricorrente per la consumazione di alcuni pasti in ristoranti siti in località limitrofe al luogo in cui è stato inviato in missione, diniego conseguente ad un rilievo della ragioneria centrale. Con il ricorso è stata dedotta la violazione delle disposizioni in materia di trattamento economico di missione, che, come risulta dal parere espresso nell'adunanza del 19 dicembre 2000, dalla Terza Sezione del Consiglio di Stato, non prevedono alcun divieto di consumazione pasti in località diverse da quella della missione, mentre la circolare interpretativa della ragioneria viola la suddetta normativa. Nessuna disposizione del d.P.R. 16 gennaio 1978 n. 513 né delle leggi 18 dicembre 1973 n. 836 e 26 luglio 1978 n. 417, sul trattamento di missione, esclude dal rimborso le spese sostenute in località viciniori a quella di missione o impone al dipendente di soggiornare o consumare i pasti esclusivamente nella località di missione; ne consegue che il diritto al rimborso non può essere escluso da una circolare ministeriale (la n. 71 del 1992), che non può in alcun modo incidere su un diritto patrimoniale del dipendente. In relazione alle motivazioni addotte in detta circolare va osservato, che la circostanza che il personale inviato in trasferta debba considerarsi in servizio nella sede di missione per tutta la durata dell'incarico non implica che il dipendente debba necessariamente ed esclusivamente soggiornare nella località della missione, poiché ciò che rileva è la strumenta1ità della spesa rispetto all'incarico espletato, strumentalità che nella specie non è contestata. Quanto all'eventualità di infortuni in itinere va osservato che lo spostamento in località limitrofe a quella di missione concretizzerebbe una tipica ipotesi di rischio elettivo ("quello cioè che, estraneo e non attinente alla attività lavorativa, sia dovuto ad una scelta arbitraria del lavoratore, il quale crei ed affronti volutamente, in base a ragioni o ad impulsi personali, una situazione diversa da quella inerente alla attività lavorativa, ponendo così in essere una causa interruttiva di ogni nesso tra lavoro, rischio ed evento" (cfr., ex plurimis, Cass. 22.2.2012, n. 2642)), non indennizzabile e dunque non gravante sull'erario. In buona sostanza, ritengo che non possa essere limitato, salvo che per il tempo strettamente lavorativo, il diritto del dipendente pubblico inviato in missione continuativa, a potersi liberamente muovere, secondo le personali esigenze, fuori dal territorio del comune di missione.

Alfredo Rovere*

Dirigente Ispettore Ministero della Giustizia


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