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Diritto

L'Europa si fa diritto umano

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLa valenza della CEDU alla luce della modifica del titolo V Costituzione e del Trattato di Lisbona.

Una tra le maggiori novità introdotte col Trattato di Lisbona è la previsione espressa nell'articolo 6 per l'adesione dell'Unione Europea alla CEDU. La modifica, apparentemente di secondaria importanza per l'idea generalmente astratta che abbiamo dei diritti umani, in realtà è destinata ad avere un grande effetto sul nostro diritto. Infatti, per le materie di competenza comunitaria, l'art. 6 prevede espressamente che "l'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali". Peraltro l'Unione già rispettava il novero dei diritti contenuto nella Carta poiché agli albori della sua giurisprudenza la Corte di Giustizia l'aveva richiamata come ricognitiva delle tradizioni europee comuni a tutti gli stati membri in tema di diritti umani. Inoltre tutti gli stati aderenti alle UE erano già aderenti alla CEDU, talché una deroga per la comunità sarebbe stata a dir poco incomprensibile. Con l'adesione, al contrario, l'Unione si legittimerà come stato al pari dei suoi stati membri e forse sopravanzando gli stessi. Ma il recente passato è stato fervido di sviluppi in questo campo: innanzi tutto la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, anche detta Carta di Nizza, con il Trattato di Lisbona ha acquisito lo stesso valore giuridico degli altri Trattati. Inoltre nella stessa Carta viene richiamata la giurisprudenza CEDU per dare una lettura conforme dei diritti umani comuni. Ci si aspetta così che in tal modo si possa creare un substrato europeo in tema di diritti umani non solo nella loro enunciazione ma anche nella loro tutela. Di questi nuovi vincoli abbiamo già avuto testimonianza nella giurisprudenza recente, dove si è data un'interpretazione piena del nuovo primo comma dell'art. 117 della Costituzione. Infatti con la modifica del titolo V è stato inserito l'obbligo per il Legislatore di rispettare sia il diritto comunitario sia i trattati internazionali quali norme interposte alla stessa Costituzione, e dunque per i diritti umani sanciti da fonti sovranazionali quali la CEDU. In particolare la Corte costituzionale con sentt. 347 e 348 del 2007 ha dichiarato l'illegittimità della normativa sugli espropri, la quale non prevedeva un equo indennizzo per il proprietario espropriato con violazione dell'art. 1 del I protocollo. Questa e altre simili vicende sono significative di come molti altri sviluppi nasceranno dalla nuova valenza che in Europa si vuole dare ai diritti umani.

Massimo Reboa


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Assegnazione della dimora comune

images/stories/dimora.jpgIl caso è di quelli che fanno scrivere fiumi di parole sui giornali cosidetti di opinione. Tutti dicono la loro, ed è un susseguirsi di commenti sui "blog" che citano la sentenza come un caso nel quale finalmente la "donna" non ha avuto l'assegnazione esclusiva della casa familiare, da considerarsi quindi una vittoria, quasi una testimonianza di Giustizia. Al di là dell'interesse mediatico, cerchiamo ora di approfondire il dettato della Legge in materia e vediamo quale sia il principio cardine considerato dalla dottrina come "stella polare" nel difficilissimo compito di dover interpretare la norma in materia di famiglia, quando alla volontà delle parti, che non trova un accordo, si "deve" sostituire quella del Giudice per riportare un punto fermo nel contrasto tra due volontà. Come è agevole comprendere dalla lettera dell'art. 155 codice civile la riforma dell'affido condiviso ha introdotto un principio diverso da quello precedente, mettendo il minore al centro dell'attenzione del Giudice e stabilendo che : "anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi". Al successivo art. 155 quater viene poi indicata la disciplina legale della casa familiare che : "il godimento della casa familiare è atttribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli". Questi sono dunque i principi ai quali rifarsi nell'esaminare il caso triestino ed a ben vedere non è corretto il dato che si apprende dalla stampa per la quale risulta che la casa sia stata "assegnata alla minore", bensì la sentenza del Tribunale dei Minorenni del luogo ha disposto delle "modalità di visita e frequentazione" assolutamente sui generis e tali da destare più di una perplessità, disponendo d'ufficio che i due genitori, comproprietari dell'immobile "si alternino nella funzione di collocatario ogni lunedì mattina con l'eventuale supporto di altri familiari". Ovviamente per reclamare un provvedimento del genere esistono rimedi formali, quello che interessa in questa sede è approfondire un dato che sembra essere sfuggito al Giudice dei Minorenni di Trieste. La centralità del Diritto del minore a mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori è stata disposta per garantire un suo sereno sviluppo mettendo il figlio al riparo il più possibile dalle conseguenze destabilizzanti della "cessazione" della relazione affettiva dei suoi genitori. La cessazione della relazione affettiva,con i suoi corollari di rabbia, rancore delusione e la necessità per entrambi gli adulti di "ritrovare una capacità autonoma di progettazione affettiva", costituiscono gli ostacoli naturali alla condivisione di un progetto separativo, ed il negarli d'ufficio non ne diminuisce il portato di negatività. In altre parole ben pochi sono i partner che "escono" da una storia relazionale condividendo con l'altro ritmi, capacità di immaginare il futuro come una opportunità ed una generale disponibilità ad organizzare con l'altro, nell'immediato, un progetto, anche solo genitoriale, che sia condiviso. Ben consapevole di questa realtà il nostro legislatore ha deciso di assicurare "il diritto" al figlio minore "di mantenere rapporti equilibrati e continuativi" con tutti e due i genitori, ma poi arrivando a legiferare in merito alla casa "familiare", e quindi esprimendo un concetto che si attaglierebbe sia alle coppie sposate che a quelle di fatto, ha disposto che questa la casa sia "attribuita in godimento" tenendo conto dell'interesse del figlio. Ed è usando questa espressione, che nella sua ampiezza consente correttamente al giudicante di avere la massima libertà nell'applicarla al caso concreto, che il Tribunale per i Minorenni di Trieste si è lasciato andare ad una "creatività" che non ha precedenti, e che purtroppo rischia di essere lesiva proprio dell'interesse della piccola di 4 anni. Il dibattito dottrinario in merito al "destino" della casa coniugale (ora familiare) è un dibattito che ha sondato ed approfondito, in oltre vent'anni, ogni aspetto della contrapposizione dei due interessi diversi di mamma e di papà. L'aver sancito che la casa coniugale o familiare debba essere "assegnata" al genitore con il quale il figlio si trovi a vivere, rappresenta non un favore, ingenuo e supino, alle donne, come da troppe parti si sostiene senza aver un minimo di confidenza con le dinamiche della crescita del minore stesso; ma al contrario rappresenta l'eplicazione, più concreta ed immediata, per assicurare nella rivoluzione delle presenze domestiche un punto fermo al minore. Il poter contare sulla permanenza in un luogo conosciuto è importante, quanto l'ulteriore principio del non perdere le abitudini della vita domestica, per come si è svolta sino a quel momento. Ed ecco perché tanti padri ora, con la legge sull'affido condiviso, hanno la possibilità di far conoscere al giudice della loro separazione, il loro vero "ruolo domestico" ove questo sia nella realtà, superiore, in termini di tempo e di qualità a quello della madre, esiste la possibillità di affermare in capo a se medesimi la qualità di "genitore assegnatario" della casa familiare. Ed il fatto che l'attenzione ad una tale istanza non sia ancora sviluppata come dovrebbe, non muta in nulla il dato della priorità : la casa familiare e la presenza vicino a se di quel genitore con il quale la vita domestica (soprattutto ad una età di 4 anni) si è svolta per il tempo maggiore, costituisce, questo sì, l'applicazione corretta del principio affermato dal Legislatore. Una diversa concezione in merito all'importanza della difesa del contesto conosciuto (che per una bimba di 4 anni si ripete è fonte di tranquillità) si risolve nel "non applicare lo spirito della norma" nel senso della massima tutela all'interesse del minore! Non v'è infatti chi non veda come nella pratica esplicazione del "provvedimento" triestino, due adulti, che già si trovano a vivere il momento evolutivo della loro separazione personale, con i contrasti le difficoltà e le revance di chiunque, si troveranno, iusso iudicis, a doversi alternare, settimana dopo settimana, nella casa ex familiare, che così non sarà contenitore per nessuno : né per la mamma né per il papà né, ed è cosa più grave, per la piccola. Chi potrà mai affezionarsi ad un luogo che non è suo, nel quale la presenza dell'altro resta una memoria sempre rinnovantesi, quando è noto dopo la cessazione di una esperienza affettiva la prima regola è quella del cercare una "tana" da dove poter riprogettare la vita del "dopo". E come potrà una bimba vedere intorno a se crescere della abitudini contenitive del luogo nel quale dorme, quando queste verranno interpretate da attori diversi di settimana in settimana, con l'aiuto e la presenza ingombrante "dei terzi" ovvero dei "congiunti" di riferimento della diverse famiglie. La tutela dei minori non passa per delle scorciatoie, ed ignorare i principi della interpretazione della norme per provare una strada "creativa", rischia di essere dannoso del sereno sviluppo di un minore. Infine, l'intervenire sulle modalità di visita e frequentazione d'ufficio, in un modo così sui generis può divenire l'incipit di una giurisprudenza "educativa" di una sfera privatissima della vita personale, della quale il Cittadino non può che preoccuparsi.

Giorgio Vaccaro

Avvocato del Foro di Roma


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La mediazione familiare

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLa società contemporanea -definita non a caso liquida- è caratterizzata da un diffuso senso di insicurezza, frutto di valori plurimi ma molto poco precisi e definiti, ed in questo contesto anche il matrimonio tende a trasformarsi in un contratto a termine. Indipendentemente dalle cause, comunque, la crisi della famiglia, che è fenomeno sociale e non naturale, è un dato di fatto. E' evidente, quindi, la necessità per lo Stato di approntare nuovi strumenti idonei ad aiutare cittadini in difficoltà e per noi operatori del diritto di acquisire sempre più ampie competenze che ci consentano di svolgere al meglio la nostra attività professionale. La Mediazione Familiare può costituire un'opportunità altamente qualificante per chi si occupa di diritto di famiglia, perché fornisce gli strumenti per gestire il conflitto in maniera costruttiva -anzitutto attraverso il ripristino dei canali comunicativi della coppia- favorendo il cambio di prospettiva necessario per affrontare con spirito collaborativo, anziché antagonista e spesso autodistruttivo, il drammatico passaggio verso la riorganizzazione familiare. Contribuisce a scindere il rapporto di coppia da quello genitoriale e rende concretamente realizzabile -anche in presenza di una iniziale alta conflittualità- il diritto dei minori a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, così come chiaramente disposto dalla L. 54/06. Proprio in tale normativa, a tutti nota come legge sull'affido condiviso, si trova il primo riferimento in Italia -a livello nazionale- alla Mediazione Familiare, già ampiamente praticata con successo in Europa fin dagli anni '70. Nel 1995 il documento fondativo della SIMeF, Società Italiana di Mediazione Familiare, www.simef.net, la definisce come un percorso finalizzato alla riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o a seguito della separazione o divorzio in cui, in un contesto strutturato, un professionista terzo neutrale, con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall'ambito giudiziario, favorisce la ricerca di soluzioni condivise. Già in questa definizione sono evidenti le peculiarità distintive da altri metodi di gestione della crisi, più noti e talvolta osteggiati (vedi media conciliazione). E' un percorso volontario: nessuno può imporlo, il Giudice può solo invitare la coppia ad avvalersene, senza alcun potere sanzionatorio in caso contrario; si svolge in totale riservatezza ed autonomia; il mediatore è tenuto al segreto professionale e non relaziona ad alcuna persona o Autorità; è diretto ad attivare la competenza di entrambi i genitori perché, attraverso un riequilibrio dei rapporti interni, siano loro stessi a trovare le soluzioni più idonee; è finalizzato all'acquisizione di un metodo di gestione del conflitto con lo sguardo diretto al futuro, perché la genitorialità è un rapporto continuativo nel tempo. Eventuali accordi presi in mediazione sulle modalità di affidamento, collocamento, mantenimento della prole ecc... sono sempre sottoposti dai genitori ai rispettivi Legali, che li rielaboreranno in condizioni di separazione, divorzio o proposta al TM. La formazione del mediatore familiare prevede la frequenza di un corso biennale di natura interdisciplinare, per complessive 240 ore comprensive di tirocinio e supervisione, oltre alla trattazione di almeno un caso in prima persona. In Roma, il Servizio è effettuato in strutture pubbliche presso quasi tutti i Municipi, in centri privati o singoli professionisti. Invito tutti gli interessati, potenziali utenti o professionisti, ad approfondire la conoscenza di questo nuovo strumento che avrà di certo sempre maggiore diffusione, perchè in grado di favorire l'esercizio condiviso della genitorialità e, contemporaneamente, rispondere all'attuale scelta politica di incoraggiare metodi alternativi al contenzioso giudiziario, soprattutto a fini deflattivi.

Rita Della Lena *

Avvocato del Foro di Roma


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Il ruolo sociale dell'avvocatura

avvokatiCon la sentenza 18 ottobre 2011(Graziani-Weiss contro Austria), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha confermato la propria costante giurisprudenza che, nel distinguere la professione forense dalle altre attività di prestazione di servizi, sottolinea il valore sociale della professione, che impone all'avvocato di assumere funzioni pubbliche quali quelle di tutela e curatela di soggetti incapaci, proprio in ragione della particolare qualificazione professionale acquisita, del superamento dell'esame di abilitazione, e dei doveri deontologici che gravano sul legale. La sentenza accosta pertanto gli avvocati ai notai ed ai magistrati, sottolineando il rilievo pubblico delle professioni giuridiche, che le distingue nettamente - dice la Corte - da gruppi di altre persone che, pur avendo studiato legge, e pur avendo ricevuto una qualche forma di "legal training" non presentano quel complesso universo deontico di diritti e di doveri che connotano invece "lawyers, public notaries, and judges".

Stefano Galeoni

* Avvocato del Foro di Roma


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Disciplina in materia di liberazione anticipata

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLO Prima di essere applicate le norme giuridiche devono essere interpretate per potere esplicare l'effettivo volere del legislatore. L'interpretazione dottrinale, come appreso nei primi anni di università, è tipica dei giuristi e del mondo accademico, in estrema sintesi di chi studia la legge. Quella giudiziale è tipica dei giudici e di chi applica la norma giuridica nelle sentenze. Infine, l'autentica, è fornita dallo stesso legislatore che ha emanato la norma giuridica. Con una apposita legge, se necessario, il legislatore può attribuire l'interpretazione vincolante di una legge precedente. Dal momento dell'entrata in vigore della legge interpretativa, tutti i soggetti giuridici dovranno attenervisi. L'art. 69-bis della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), introdotto dall'art. 1, comma 2, L. 19 dicembre 2002, n. 277, disciplina il procedimento in materia di liberazione anticipata, stabilendo, al comma 1, che: "Sull'istanza di concessione della liberazione anticipata, il magistrato di sorveglianza provvede con ordinanza, adottata in camera di consiglio senza la presenza delle parti, che è comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nell'articolo 127 del codice di procedura penale" (il quale articolo 127 contempla il procedimento in camera di consiglio e, al comma 7, recita: "Il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nel comma 1", vale a dire quelli a cui va dato avviso di fissazione d'udienza, cioè "alle parti, alle altre persone interessate e ai difensori....Se l'imputato è privo di difensore, l'avviso è dato a quello di ufficio"). Sembrerebbe di primo acchito tutto chiaro, ma così non è; tant'è vero che l'interpretazione/applicazione della norma richiamata avviene sul territorio in modo differente. L'ufficio del magistrato di sorveglianza di XY (leggi nord Italia) opera in tutt'altro modo da quello WZ (leggi sud Italia). E la cosa non è del tutto priva di conseguenze in ordine all'efficacia, l'efficienza e l'economicità della Pubblica Amministrazione, principi basilari che non possono non valere anche per gli uffici giudiziari. Più specificamente, uscendo fuori dalla metafora, può verificarsi, per esempio, che, al nord, se l'istante del beneficio della liberazione anticipata è privo di difensore di fiducia, il magistrato di sorveglianza competente, gliene nomini uno di ufficio nel caso di rigetto dell'istanza; mentre al sud il magistrato di sorveglianza ritenga di non doverglielo nominare. In subiecta materia è intervenuta la Corte Costituzionale la quale già con ordinanza 352/2003 (richiamata da altra n.291/2005 con la quale è stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 69-bis citato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 27 della Costituzione, sollevata dal magistrato di sorveglianza di Napoli), aveva osservato come la nuova disciplina in materia di liberazione anticipata – disciplina in forza della quale il magistrato di sorveglianza decide sull'istanza dell'interessato de plano, salva una fase successiva di reclamo, a contraddittorio pieno, davanti al tribunale di sorveglianza – sia stata introdotta dalla legge 277/02 in risposta ad esigenze di snellimento procedurale fortemente sentite nella prassi, tenuto conto anche dell'elevato numero delle istanze di cui si discute. Inoltre, veniva avvertita come fonte di ingiustificato aggravio (e ritardo nella decisione) la previsione di un procedimento in contraddittorio, in vista dell'adozione di un provvedimento che ben poteva essere – ed in larga parte dei casi era – di accoglimento della richiesta dell'interessato: apparendo assai più ragionevole, di contro, che l'instaurazione di un contraddittorio pieno avvenisse solo nel caso di eventuale insoddisfazione del richiedente (o del P.M.) per la decisione assunta. Nonché, veniva assunta la piena compatibilità con il diritto di difesa dei modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito: caratterizzati cioè – in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza – da una decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum. Anche l'orientamento giurisprudenziale del giudice di legittimità appare nel senso della non necessità nella materia de qua dell'assistenza del difensore. Afferma, infatti, la Corte di Cassazione che: "l'intervento del difensore nel procedimento ex art. 69-bis L. 354/1975 non è necessario (così come – in difetto di diversa disposizione speciale – non lo è nelle procedure camerali regolate dal richiamato art. 127 c.p.p.); ne segue che il giudice procedente in mancanza di nomina fiduciaria, non è neppure tenuto a designare un difensore d'ufficio. Le comunicazioni e notifiche ai sensi del c.1 dell'art. 69-bis citato saranno in tal caso necessariamente limitate ai soggetti che allo stato risultano legittimati a reclamare (interessato e P.M.), dando luogo alla decorrenza del breve termine di dieci giorni concesso dalla legge per la proposizione del gravame" (cfr. C.Cass., I Sez. Pen., sentenza 21350/08). Ma tanto la pronuncia della Corte Costituzionale che quella della Corte di Cassazione non vincolano il giudice che dovesse ritenere di orientarsi in modo difforme dalle pronunce suddette. E allora non può non auspicarsi un intervento del legislatore per una interpretazione autentica che ponga fine al diverso modus operandi che non è soltanto di forma, stante che, ove effettivamente si riuscisse a stabilire in modo vincolante per il giudice che non deve farsi luogo alla nomina del difensore di ufficio (ove l'istante non abbia ritenuto di nominarne uno di fiducia) si realizzerebbe oltre ad un notevole risparmio di tempo e di adempimenti lavorativi per il personale amministrativo, anche, e soprattutto, una considerevole economia di spesa (perché i difensori di ufficio, ovviamente, espletate le incombenze di legge, presentano al giudice, immancabilmente, istanza di liquidazione dell'onorario che viene pagato dallo Stato quale spesa di giustizia) e anche per il risparmio di carta che ne conseguirebbe.

Alfredo Rovere

*DIRIGENTE ISPETTORE MINISTERO DELLA GIUSTIZIA


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