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Magistratura

I Dirigenti della Giustizia

“Costruire il servizio giustizia nel 2011, tra crisi, scontri e idee per il miglioramento”.
Si è tenuto a Bari lo scorso 11 giugno il XV° Convegno nazionale dell’ “associazione dirigenti giustizia”, costituita a Caserta il 13.1.1997, col proposito, come si legge nello statuto, di promuovere attività di carattere professionale, iniziative di coordinamento dei dirigenti del Ministero della Giustizia volte ad accrescere il ruolo professionale nell’ambito della Pubblica Amministrazione, nonché attività culturali e sociali.
Il tema del convegno è stato: “Costruire il servizio giustizia nel 2011, tra crisi, scontri e idee per il miglioramento”.
Ci si è interrogati, ancora una volta, sul “come” e sul  “cosa” fare come dirigenti  per cercare di dare una maggiore efficienza alla macchina giudiziaria.
L’attenzione dei convegnisti si è, ovviamente incentrata sull’aspetto problematico più rilevante ed emergente nella situazione attuale del sistema giustizia, che è quello delle risorse. Tanto delle risorse materiali, sempre più scarse, che delle risorse umane.
Naturalmente nella consapevolezza che non esistono ricette miracolose, sono state avanzate proposte per iniziative che, nel breve, potrebbero essere adottate, nelle more delle riforme legislative in fieri, per tentare, quantomeno, di evitare una maggiore degenerazione dell’attuale status quo.
Non si è potuto non rilevare, in ordine alle risorse materiali, la mancata soppressione dei diversi uffici del giudice di pace per i quali tale proposta era stata avanzata, che avrebbe consentito una forte economia di spesa. Già nel 2006, infatti, erano stati individuati circa 100 uffici del giudice di pace con affari, iscritti a ruolo nell’anno, inferiori a 100. Prendendo in considerazione gli uffici del giudice di pace con affari per anno inferiori a 500 il numero di quelli con scarsa produttività aumentava esponenzialmente. Questi uffici continuano ad essere praticamente senza personale, spesso con un’unica unità di qualifica esecutiva che ha l’onere di tutti gli adempimenti amministrativi e processuali, salvo la visita,  una o due volte a settimana, di qualche “cancelliere” itinerante, per la firma dei depositi, delle sentenze e di quant’altro. In compenso per tali uffici si pagano i rimborsi ai comuni per gli affitti, le spese di luce, telefonia, riscaldamento, funzionamento cancellerie etc. etc.
Così, analogamente, per diversi Tribunali non provinciali e relative Procure della Repubblica e di tante sezioni distaccate, con personale sia di magistratura, sia amministrativo a livelli talmente minimi da impedirne un accettabile funzionamento (talora in tali realtà sorgono problemi anche solo per la costituzione del Collegio giudicante, o per l’assistenza alle udienze). La Regione Piemonte, per esempio, a fronte di 8 province vanta ben 25 tribunali e 9 sezioni distaccate.
Le circoscrizioni giudiziarie andrebbero, quindi, sicuramente riviste in quanto concepite in un’epoca storica in cui il servizio giustizia non poteva che essere diffuso capillarmente sul territorio a causa delle difficoltà nei trasporti e delle insufficienti e scarse vie di comunicazione. Tuttavia pur essendo stata periodicamente avanzata da tutte le forze politiche, essa non è mai stata realizzata, perché si è finito per affrontarla con l’animo volto al “campanile” piuttosto che nell’ottica di dare una soluzione ottimale al problema. Se venisse attuata la revisione, ferme restando le attuali risorse, si realizzerebbero economie di spesa e con una più razionale distribuzione di personale, si renderebbero senza dubbio più funzionali gli uffici giudiziari medio grandi dei territori di riferimento con beneficio per l’utenza. Non è mancata, infine, una attenta considerazione sull’elevato numero di posti scoperti di dirigente rispetto a quelli previsti dal corrispondente Ruolo. 208 dirigenti amministrativi in servizio su un organico pari a più del doppio, insufficiente a coprire i 1286 uffici giudiziari esistenti (esclusi gli 846 uffici del giudice di pace). Da qui la proposta, non ultronea, al fine di consentire a tutti gli uffici giudiziari di avere un dirigente amministrativo per la gestione delle risorse, di superare il vecchio criterio di assegnazione del dirigente amministrativo per ufficio, ma  bensì per  “ sede” o “ per circondario” ed in qualche caso anche “ per distretto”, cui dovrebbe fare da contraltare l’assegnazione del personale amministrativo delle qualifiche funzionali per sede e non per ufficio.
Ma ci sarà chi si prenderà cura di dare seguito e attuazione a queste proposte? O si continuerà a peritarsi di farlo? I dirigenti hanno fatto la parte loro.

Alfredo Rovere*

Dirigente Ispettore Ministero della Giustizia


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L'azione penale, le sentenze

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLa giustizia, l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura.
L’autonomia e l’indipendenza della Magistratura, l’obbligatorietà dell’azione penale, le sentenze non si commentano, la separazione delle carriere, il Magistrato applica la legge, la Giustizia è uguale per tutti sono l’elenco di tanti ottimi principi che si scontrano con una realtà che non registra corrispondenti comportamenti. Lungo l’arco di 50 anni la Magistratura organizzata si è opposta a quasi tutte le riforme, ha influenzato la vita politica del Paese e spesso va detto ha svolto una funzione di supplenza. Già tra il 1960 e il 1970, quando ricopriva l’incarico di procuratore generale della Corte di Appello di Roma il Dr. Luigi Giannantonio, assistemmo ad una vera e propria politica giudiziaria nei confronti della pubblica amministrazione, se pur meritevole negli intenti dell’alto magistrato per la buona amministrazione del pubblico denaro, sicuramente discutibile  nelle singole iniziative penali. Il caso Marotta e Ippolito. La pacata e nobile voce di Arturo Carlo Jemolo sullo sperpero del pubblico denaro da parte del giudice penale. Le critiche di autorevoli giuristi, come Giuseppe De Luca e Antonio Chiavelli e le posizioni di Calamandrei sulla questione della obbligatorietà dell’azione penale. Il libro “La repubblica dei procuratori” del compianto Guglielmo Negri o “I Giudici e la politica” di Achille Battaglia. Come è possibile che lo statuto dei Magistrati, l’ordinamento giudiziario di marca fascista del 1941, sia stato semplicemente riformato, dopo 64 anni e forti contestazioni, nel 2005 da un ministro della Lega. Come è possibile che ogni volta che un disegno di legge viene proposto, scendono in campo tutti uniti per resistere, resistere, resistere? Come è possibile che il codice penale fascista del 1930 non sia stato ancora riscritto? Il sentire del popolo non è quello di ritenersi tutelati, garantiti e protetti. Anche coloro che hanno subito un torto, le vittime dei reati, i parenti dei delitti delle brigate rosse, i creditori di somme, coloro che rivendicano un diritto, una pretesa hanno uno scarsa fiducia nella Magistratura. La Giustizia, così come officiata, favorisce il delinquente, il debitore, il persecutore, il truffatore a danno della vittima, del creditore, del perseguitato, del truffato. A fronte di milioni di denunce e querele il Magistrato sceglie quale coltivare, quale istruire in totale libertà e discrezione. L’obbligatorietà della azione penale è una semplice chimera, vagheggiata in un mondo che non c’è. Abbiamo 10 milioni di processi da concludere di cui 4 milioni penali. Ovviamente la colpa è degli altri, manca la carta per le fotocopie, non ci sono i soldi per l’assistenza informatica. La risposta è sempre la stessa: “noi ci limitiamo ad applicare la legge”. Le sentenze non si commentano. Non si devono commentare.  Le sentenze vengono sempre commentate. In positivo, quando il condannato appartiene ad una parte politica, o presunto tale, in negativo, se il soggetto è un militante della parte opposta. L’ex governatore della Sicilia è stato definitivamente condannato dalla suprema Corte di Cassazione a 7 anni di carcere, peraltro, il Procuratore Generale ha escluso il favoreggiamento aggravato, ritenendo corretto quello semplice (con il favoreggiamento semplice il reato sarebbe caduto in prescrizione). Il cantante Battiato ha commentato positivamente la condanna del senatore: “ora ho fiducia, sento che qualcosa cambierà, la speranza è che vadano al potere persone oneste”.  Si può dedurre dalle frasi del cantante che se Cuffaro fosse stato assolto, magari per prescrizione del reato, il cantante catanese avrebbe denunciato tutto il suo disprezzo, tutta la sua rabbia, deluso e sfiduciato per il futuro dell’Italia. Quando fu condannato, dopo che 50 Magistrati si interessarono a vario titolo del caso, il brigatista Sofri una parte del Paese insorse con vibrante impegno e molti commentarono negativamente la decisione, gridando dai loro templi della libertà che il combattente Sofri era un prigioniero dello Stato. Le lezioni degli studenti delle scuole medie furono interrotte per qualche minuto di parola da parte di solerti insegnanti che si sono sentiti in dovere di informare i ragazzi su questo atto di barbara violenza contro un paladino della libertà e dell’impegno politico. Una ingiusta condanna dello Stato antitidemocratico. All’integralismo giudiziario, ai profeti di sciagure è facile rispondere con la vecchia proposta Calamandrei, o tutte le successive, da Pizzorusso agli altri che intendono riportare l’organo dell’ufficio del pubblico ministero al suo ruolo costituzionale e processuale di parte del processo e non di arbitro insindacabile  e isolato dell’iniziativa penale, in totale latitanza di producenti misure in ordine alla responsabilità, civile e disciplinare, per gli atti compiuti in pregiudizio dei principi di imparzialità ed indipendenza della funzione. Il calvario giudiziario di Luttazzi, il caso Sarcinelli, da Elena Massa agli avvocati sardi del caso Emanuella, a riprova che si incarcera spesso con facilità e con leggerezza senza alcuna conseguenza per chi ha l’immenso potere di decidere misure coercitive della libertà personale del cittadino. Il VI convegno nazionale del 1969 che poneva il tema della “preparazione, scelta e formazione del giudice e dell’avvocato” che seguiva quello del 1966 “natura e funzioni del pubblico ministero-lineamenti per una riforma” (Maranini, Conso, Leone, Fazzalari, Pisapia, Pizzorusso, Scardia, Rosso, Sabatini, Giallombardo, Madia, Mazurca, D’Ovidio), fu vivamente osteggiato dalla Magistratura. L’uso della custodia cautelare a scopo esemplare senza alcuna reale esigenza processuale. La cattura dell’attore Bramieri implicato in un sinistro stradale, con evento di omicidio colposo (non era ubriaco). Frange della Magistratura si sono poste nel ruolo di censori nei confronti prima degli eversori dell’ordine costituito, sesso e religione, poi nei confronti di grandi artisti italiani Pasolini (La ricotta), Benigni e di grandi benefattori sociali, processo Muccioli. L’autonomia e l’indipendenza della Magistratura, che nessuno ragionevolmente mette in discussione, si può tradurre in una posizione egemonica del “potere” dei Magistrati, in particolare delle loro istituzioni. Al convegno di Siracusa del 1983 sui rapporti tra giustizia e informazione Alfonso Madeo sottolineò tendenze della Magistratura italiana verso l’egemonia, con segnali di insofferenza verso il diritto dovere dell’informazione. L’amministrazione della giustizia in nome del popolo e la soggezione dei giudici solo alla legge,  secondo l’art. 101 della Costituzione, non può legittimare interpretazioni estensive dei ruoli e degli indirizzi. Se tutti i crimini non possono essere  efficacemente perseguiti, si vanifica il principio dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, in quanto il magistrato volontariamente potrà decidere quale indagine compiere.

Carlo Priolo*
Avvocato del foro di Roma


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La rivoluzione dell'ordine giudiziario

avv. Romolo Reboa, avv. Reboa, Romolo Reboa, Reboa, Romolo, Ingiustizia la PAROLA al POPOLO, la PAROLA al POPOLOLo stato nazionale moderno, il cosiddetto stato di diritto, così come è usualmente concepito nel mondo occidentale, è articolato con una separazione tripartita di funzioni: legislativa, esecutiva, giudiziaria, il cui precipitato è che il governo attua gli indirizzi politico-programmatici definiti dal parlamento, quest’ultimo redige e determina la vigenza delle norme e la magistratura applica ai casi concreti sottoposti al suo esame le norme vigenti. Ogni interferenza tra le funzioni in linea generale dovrebbe essere esclusa, e anzi l’equilibrio del sistema si fonda proprio sull’esclusione.

Nella costituzione formale italiana questo principio è sancito dall’affermazione secondo cui il giudice è soggetto solo alla legge, che deve necessariamente applicare e non può ignorare, né modificare.

Nella pratica, tuttavia, le cose stanno diversamente: da un lato la magistratura ha enfatizzato la propria autonomia, pervertendola in autarchia, dall’altro, attraverso una dilatazione abnorme dell’interpretazione rispetto alla applicazione, ha spesso assunto un ruolo di supplenza, se non addirittura di sostituzione della funzione legislativa. E’ il fenomeno della cosiddetta giurisprudenza creativa, inizialmente ristretto a casi eccezionali di vuoto normativo e poi progressivamente eletto a sistema.

Un esempio classico lo ritroviamo nella disciplina relativa alla liquidazione agli eredi della quota del socio defunto di società di persone: l’art. 2284 c.c. pone esplicitamente tale onere a carico degli altri soci della società, quelli il cui patrimonio sarebbe accresciuto a seguito della liquidazione per effetto del proporzionale incremento della propria partecipazione. La norma è chiara e logica, perciò non dovrebbe essere suscettibile di interpretazione. Tuttavia, dal 2000 la Cassazione a Sezioni Unite, ricorrendo ad argomenti socio-economici più consoni forse a una relazione parlamentare, afferma che l’onere deve essere soddisfatto col patrimonio della società, con ciò non solo contraddicendo il proprio precedente indirizzo, ma soprattutto l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale (c.d. preleggi) che regola criteri e limiti della funzione interpretativa.

Col tempo nella magistratura italiana è invalsa la convinzione che una motivazione non illogica potesse sostenere qualunque tesi, e soprattutto che la magistratura stessa, attraverso la c.d. interpretazione evolutiva, fosse titolare di un ruolo di supplenza rispetto ai ritardi, supposti o reali, del legislatore.

Tuttavia, come abbiamo visto nell’esempio citato, dall’evoluzione alla sostituzione, e quindi all’aberrazione del principio di separazione, il passo è brevissimo: così il giudice, nato servo della legge, prima se ne proclama sacerdote, poi rivendica il ruolo di pontefice, cioè di custode esclusivo, interprete unico e creatore concreto della giustizia, che è appunto la funzione pontificale prima delle dodici tavole.

Emblematica in tal senso è una recente proposta dell’ANM in tema di ammissibilità del ricorso per cassazione, che vorrebbe limitare alle sole questioni nuove o a quelle che la corte ritenesse di dover riesaminare. Vada per la restrizione alle questioni nuove, ma il riferimento a “quelle che la Corte ritenga di dover esaminare” è la pretesa di una discrezionalità assoluta, imprevedibile e incontrollabile. Tutto questo col pretesto di snellire il carico della Corte di Cassazione: di fatto un altro passo verso una rivoluzione strisciante.

Ho conosciuto magistrati che si rifiutavano di partecipare a discussioni sulla validità o opportunità di talune scelte del legislatore, perché ritenevano che non fosse loro compito, e anzi, credevano che prendere posizione rispetto alla norma fosse un tradimento della loro funzione. Questi magistrati non confondevano mai l’interpretazione oggettiva con le loro opinioni, giuridiche o politiche, né dichiaravano di contestare o ribellarsi a norme o proposte normative da loro ritenute inopportune, ingiuste o perfino incostituzionali, salvo sollevare il dubbio di costituzionalità nelle forme previste e attendere serenamente il responso della Consulta. Ho spesso incontrato questi magistrati nelle aule giudiziarie e in convegni di studi giuridici, ma non li ho mai visti in televisione. E’ da questo genere di giudici che vorrei essere giudicato. Gli altri non mi sembrano abbastanza sereni per tale funzione.

Giuseppe Valenti*

Avvocato del Foro di Roma


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La riforma organica della magistratura onoraria

 Nell’ultimo decennio, per contenere l’arretrato giudiziario e alleggerire il carico di lavoro dei magistrati togati, la giurisdizione é stata devoluta sempre più ai magistrati onorari, sia aumentando progressivamente la competenza per materia del giudice di pace, sia affidando ai giudici onorari aggregati (goa) l’arretrato giudiziario in materia civile. Inoltre, nel 1998, sono stati istituiti il giudice onorario di tribunale (got), che esercita la giurisdizione sia in materia civile che in materia penale, addirittura componendo il tribunale monocratico (eventualità preclusa agli stessi magistrati togati nei primi tre anni di esercizio delle funzioni giudiziarie), e il vice procuratore onorario (vpo), omologo requirente del got delegato del procuratore della Repubblica nelle udienze penali monocratiche e in alcune attività inquirenti, tra cui le indagini relative ai reati di competenza del giudice di pace penale. Il fenomeno appare ormai inarrestabile, al punto che il Ministro della Giustizia, lo scorso dicembre, per scongiurare la totale paralisi dei tribunali e delle procure e in attesa di una riforma organica della magistratura onoraria, ha dovuto emanare un decreto legge per prorogare di un anno il mandato dei got e dei vpo in scadenza alla fine del 2003. Ora la riforma auspicata dal Ministro Castelli sembra prendere le mosse attraverso un progetto di legge bipartisan, redatto sulla base di un testo proposto dalla Federazione Magistrati Onorari di Tribunale (Feder.M.O.T.) e sottoscritto da ben sei Deputati Capi Gruppo della Commissione Giustizia presso la Camera dei Deputati e precisamente dagli Onorevoli Vitali (FI), primo firmatario, Buemi (SDI), Cola (AN), Fanfani (Margherita), Lussana (Lega Nord), Mazzoni (UdC). Il p.d.l. prevede la creazione stabile di un ruolo dei magistrati di complemento, articolato in due ben distinte figure: il giudice di complemento e il sostituto procuratore di complemento. Il magistrato di complemento non potrà raggiungere il grado di magistrato di appello o di cassazione e amministrerà la giustizia soltanto nelle materie di competenza del tribunale o del giudice di pace; lo status giuridico sarà modellato sulla falsa riga di quello previsto per i magistrati del ruolo ordinario (cosiddetti «togati»), con la previsione dell’inquadramento a tempo indeterminato e di un trattamento economico ridotto rispetto a quello dei colleghi togati. L’abolizione del magistrato onorario temporaneo va salutata con favore. La temporaneità dei magistrati onorari, infatti, ha determinato sino ad oggi una pericolosa discriminazione tra questi e i loro colleghi togati, relegando i primi in una condizione di precarietà lavorativa e di incertezza che ne pregiudica gravemente l’autonomia e l’indipendenza, in spregio ai principi costituzionali che garantiscono al cittadino di essere giudicato da un magistrato soggetto soltanto alla legge e distinguibile dai propri colleghi soltanto per la diversità delle funzioni svolte. E come se ciò non bastasse, oggi l’irragionevole meccanismo della temporaneità finisce per estromettere il magistrato onorario dalle funzioni giudiziarie proprio nel momento in cui ha maturato un’esperienza professionale che ne giustificherebbe, previo adeguata verifica di professionalità, il definitivo inquadramento a tempo indeterminato.Il progetto di legge, proprio al fine di non disperdere la professionalità acquisita sul campo dagli onorari, prevede che, in una prima fase transitoria, i magistrati di complemento vengano reclutati esclusivamente nelle fila dei magistrati onorari: in particolare, i vpo per l’incarico di sostituto procuratore di complemento, e i giudici onorari per l’incarico di giudice di complemento. Inoltre, in fase di prima applicazione, la legge prevede anche che i magistrati onorari che non vogliono optare per il ruolo di complemento, potranno continuare a fare i magistrati onorari, in deroga ai limiti temporali previsti dall’attuale normativa e per non più di dieci anni; tale disposizione giungerà gradita soprattutto ai magistrati onorari con maggiore anzianità anagrafica i quali, accedendo al ruolo di complemento, dovrebbero assoggettarsi ad un rapporto di pubblico impiego incompatibile sia con lo svolgimento della professione forense che con il godimento di un pregresso trattamento pensionistico. Il maggiore pregio politico della proposta Vitali, sembra quello di non toccare le prerogative specifiche della magistratura ordinaria, tradizionalmente ostile all’ampliamento dell’organico togato ma, al contempo, impossibilitata ad amministrare la giustizia con la sola forza degli attuali 8.800 magistrati ordinari; non a caso il p.d.l. ha trovato la parziale condivisione di forze dell’opposizione tradizionalmente vicine all’Associazione Nazionale Magistrati.Inoltre il ruolo di complemento accoglierebbe anche le istanze di quella parte dell’avvocatura tradizionalmente favorevole alla sostituzione dei magistrati onorari con magistrati professionali in grado di garantire al cittadino, e al suo difensore, la qualità e l’imparzialità richieste a chi amministra la giustizia.

 

Paolo Valerio*

Avvocato del Foro di Roma


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Le professionalità da rivalutare

Sono ormai quasi due anni che svolgo le funzioni di Giudice di Pace e diciotto che esercito la professione di avvocato.

Penso che sia ora che tutti gli operatori del diritto, dai magistrati ai colleghi avvocati, la classe politica ed anche il semplice cittadino, conoscano le gravi situazioni di ingiustizia che giornalmente vengono poste in essere nei confronti di coloro che si rivolgono ai Giudici di Pace chiedendo invece giustizia.

Sgomberiamo subito il campo da eventuali incomprensioni o fraintendimenti: per ingiustizia non intendo quella che normalmente viene indicata dal normale cittadino nel caso in cui perde una causa, bensì quella istituzionale che scaturisce direttamente dall’applicazione di norme di legge che non garantiscono il corretto funzionamento della funzione giurisdizionale svolta dai Giudici di Pace.

Ma veniamo al punto.

La figura del Giudice di Pace è stata istituita con legge dello Stato nell’ormai lontano 1991 e da allora, con varie vicissitudini, sono state più volte modificate funzioni, competenze e poteri. Oggi abbiamo una figura di giudice «onorario» cui è stata delegata una duplice funzione: quella di giudice di «equità» per le controversie con valore fino a 2.000.000 di vecchie lire e quella giurisdizionale vera e propria per le controversie con valore compreso tra 2.000.000 e 5.000.000 di vecchie lire e per alcune materie di competenza esclusiva, con il conseguente dovere, in questi ultimi casi, di giudicare secondo diritto.

Per il reclutamento dei Giudici di Pace il legislatore ha preferito un criterio misto: avvocati e semplici cittadini con la laurea in giurisprudenza.

Vediamo quindi in pratica quali sono state le conseguenze di tale scelta politica.

Un cittadino che si rivolge al Giudice di Pace per ottenere giustizia nei casi in cui è prevista una decisione cosiddetta «di diritto» deve nominare un avvocato per la difesa, e il Giudice che deve decidere è tenuto a conoscere ed applicare sia il Codice di rito che le leggi di riferimento al caso specifico, ma troppo spesso accade che anziani Giudici di Pace, con una laurea in giurisprudenza conseguita magari 30 o 40 anni fa, non conoscono il diritto processuale.

Quando poi il Giudice di Pace è chiamato a decidere secondo equità accade che al cittadino che si presenta in giudizio personalmente gli vengono contestate preclusioni e decadenze procedurali che non è tenuto a conoscere e magari perde la causa per questo motivo.

Nel caso ad esempio delle impugnative dei verbali di accertamento per violazione del Codice della Strada non è ammissibile applicare al processo il principio processuale delle eccezioni di nullità del verbale non rilevabili d’ufficio dopo aver permesso la difesa personale e non tecnica.

Penso che se la scelta politica è quella di deflazionare il piccolo contenzioso sottraendolo alla competenza del Tribunale, magari aumentando le attuali competenze per valore, è indispensabile rivalutare il ruolo e la professionalità degli avvocati o permettendo un maggior accesso alla funzione di Giudice di Pace, eliminando l’incompatibilità nel circondario del Tribunale (che obiettivamente non ha alcun senso se resta l’incompatibilità specifica sul singolo caso), oppure regolando l’inquadramento definitivo dei Giudici di Pace con funzioni giurisdizionali speciali ed una disciplina dello stato giuridico che permetta un’adeguata tutela previdenziale e un’adeguata retribuzione.

A me sembra che oggi la magistratura togata e lo stesso Ministero di Grazia e Giustizia vogliano, per così dire, «la botte piena e la moglie ubriaca». E i cittadini?

Quale giustizia?

 

Alfonso Colarusso


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