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Editoriali

Caso ex ILVA di Taranto

Cercasi difensore per l’Italia e giornalisti d’inchiesta

In questi giorni non v’è nulla di più disinformativo che ascoltare i dibattiti in TV o leggere tanto i quotidiani quanto i siti web che parlano del caso Arcelor – Mittal, con quest’ultima che ha citato in giudizio avanti il Tribunale di Milano i commissari dell’ex ILVA per sentir dichiarare la legittimità della decisione di chiudere lo stabilimento di Taranto.

Infatti tutti parlano e, sostanzialmente, nessuno sa di cosa sta parlando, dato che, malgrado sia reperibile in internet, non si ascoltano persone che parlino di ciò che gli avvocati che difendono la Arcelor – Mittal hanno scritto nell’atto di citazione.

Visto che sono un avvocato, il mio primo istinto è stato leggerla e trovare che c’è un argomento (l’unico) sul quale i sostenitori di questo o quel partito contrapposti concordano: non è contrattualmente affidabile una nazione ove vi è uno Stato che prima fa una gara di affidamento e, poi, cambia in corsa le regole del gioco perché un partito, componente entrambe le maggioranze di governo succedutesi dopo le elezioni del 2018, costringe i propri partner del momento a comportamenti legislativi disomogenei nell’arco di pochi mesi.

La schizofrenia giuridica uccide l’economia e provoca povertà e solo degli irresponsabili o degli incompetenti non lo comprendono. Detto ciò, non significa che ha ragione chi ha accettato il rischio di concludere un contratto in un Paese affetto da malgoverno cronico solo perché dichiara di accorgersi di tale assurda situazione quando i conti non tornano più.

Quel che è certo è che, nell’atto di citazione, si fa riferimento ad una serie di fatti specifici sui quali nessuno dice nulla, se sono veri o falsi.

Un giornalismo serio, d’inchiesta, analizzerebbe tutti gli argomenti contenuti in un atto di citazione che rischia di mettere in ginocchio quindicimila famiglie, la fragile economia di Taranto e della Puglia e, anche, dell’Italia intera.

Un giornalismo serio, d’inchiesta, ad esempio darebbe una risposta prima dei giudici ad esempio all’accusa degli avvocati dell’Arcelor – Mittal ai commissari dell’ex ILVA (e, quindi, al Governo Italiano) di dolo: perché se i fatti sono veri, gli Italiani debbono sapere subito (e non dopo un processo la cui prima udienza si celebrerà (forse) il 6 Maggio 2020) se una multinazionale straniera vuole utilizzare il sistema giustiziario italiana per insultare una nazione, ovvero se i nostri rappresentanti tentano di fare i furbi con chi ancora spera di investire in Italia e, così facendo, mettono tutti noi alla berlina e sul lastrico.

Anche perché, dato che l’Italia è rappresentata da un professore universitario che si è auto definito "avvocato del popolo", è necessario che il popolo, ovvero le persone che egli identifica idealmente quali suoi clienti, non lo lasci da solo e lo aiuti a vincere una causa della quale, abituato a trattare grandi temi, potrebbe perdere di vista quei piccoli elementi che spesso consentono agli sconosciuti di vincere nelle aule di tribunale cause a prima vista perse.

Così, da avvocato in mezzo al popolo, ho deciso con queste righe che probabilmente il Presidente non leggerà, di dargli un suggerimento: quando in una citazione si evidenziano degli espedienti evidenti, bisogna andare a fondo e verificare riga per riga cosa scrive il proprio contraddittore.

Non entrerò nel merito della causa, ma è evidente che, in una controversia di questo genere e valore economico e sociale, una società attrice che invita la controparte a comparire in Tribunale in un termine doppio rispetto a quello fissato dall’art. 163 bis cpc (che è di novanta giorni) non ha quale reale volontà quella di ottenere una sentenza, ma di far cuocere a fuoco lento il proprio instabile avversario, sapendo che è incapace di azioni repentine a tutela del Paese.

In sintesi vi è una volontà destabilizzante che abusa del diritto, cui un Governo legislatore forte, serio e preparato potrebbe rispondere con un decreto legge a tutela della giustizia sociale e sostanziale: e non si venga a dire che evoco sistemi dittatoriali, perché io, da europeista convinto, chiedo solo di usare il principio di reciprocità, ricordando il comportamento del governo di Parigi di fronte alla prospettiva dell'acquisto dei cantieri navali francesi Stx da parte di Fincantieri.

E, ancora, colpisce rilevare, a pag. 34 di un atto di citazione relativo ove si chiede la risoluzione di un contratto di cessione di azienda a un prezzo di Euro 1,8 miliardi, l’espediente a volte utilizzato da avvocati di piccolo cabotaggio per far pagare al proprio cliente un contributo unificato (la tassa processuale) inferiore a quello dovuto.

Nell’atto di citazione dell’Arcelor – Mittal, a pag. 34, si legge che il valore della causa è indeterminato e quindi la società attrice per adire la giustizia italiana paga un contributo di soli € 518,00 in luogo di quello dovuto, calcolando che trattasi di Tribunale delle imprese, che è pari ad € 3.372,00.

Un peccato veniale, un illegittimo risparmio dell’Arcelor – Mittal di € 2.854,00, che è il secondo segnale di come agisce questo gruppo imprenditoriale Franco – Indiano, ma che è molto significativo per chi calca tutti i giorni le aule dei tribunali.

In sintesi, per salvarsi l’Italia ha bisogno di un avvocato difensore della nazione, che anteponga la giustizia sociale e sostanziale ai sofismi dei teorici del nulla.

Romolo Reboa

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Solidarietà per Nasrin Sotoudeh

L'avv. Narin Sotoudeh

Non basta una foto e delle dichiarazioni per aiutare la valorosa collega iraniana


Il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Roma deve assumere un impegno serio in questa che è una battaglia per il diritto di difesa in tutto il mondo.

Nasrin Sotoudeh, avvocato iraniano impegnata nella difesa dei diritti umani, è stata condannata a 38 anni di carcere e 148 frustate.

Le accuse di incitamento alla corruzione e alla prostituzione, commissione di un atto peccaminoso essendo apparsa in pubblico senza velo e interruzione dell’ordine pubblico, unite alla pena disumana, sono la prova più evidente che la condanna ha natura politica e professionale e, purtroppo, riporta all'attenzione quanto siano difficili condizioni di vita in Iran per coloro che credono nei valori occidentali.

Un'avvocatura che avesse voluto essere protagonista si sarebbe dovuta mobilitare in difesa di questa collega, perché difendendo lei si difende, oltre ad una donna coraggiosa, la libertà di toga.

Invece il silenzio o qualche sterile dichiarazione finalizzata ad utilizzzare l'evento mediatico per guadagnare la luce del riflettore di qualche telecamera.

L'unica reale voce di solidarietà è giunta dall'avv.sa Maria Grazia Gentile che ha inviato ai colleghi tramite whatsApp una foto dei consiglieri dell'Ordine degli Avvocati di Roma, in toga, con alle spalle il Palazzaccio, ed una sovrascritta in azzurro ove si comunica che il Consiglio chiede che la sessione congressuale del 5 e 6 Aprile 2019 sia simbolicamente intitolata alla valorosa collega iraniana.

Mentre scrivo queste righe, sul sito dell'Ordine ancora nulla è apparso, a dimostrazione che la vicenda non è primaria nell'interesse di chi ha votato la mozione.

Sinceramente un po' poco, di fronte alla gravità dell'evento ed all'opportunità che gli avocati di tutto il mondo avrebbero per ribadire come essi siano l'unico baluardo a difesa dei diritti, della tolleranza e della civiltà.

Senza un giusto processo, non vi è una giusta condanna e senza un avvocato libero non vi può essere un giusto processo.

Il silenzio è l'Iran degli avvocati di tutto il mondo, che non devono dimenticare che non è solo l'Iran a perseguitarli, ma ogni regime dittatoriale o confessionale.

Avvocati, se avete ancora un briciolo di dignità svegliatevi, non limitatevi a ricercare la pubblicità di qualche pelosa dichiarazione di solidarietà verso i colleghi che si battono veramente per quella dignità della toga che ogni giorno scende più in basso per la pochezza dei suoi protagonisti.

Romolo Reboa


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L’illegalità diffusa

Vaprio D'Adda: un pensionato si sveglia, trova i ladri in casa, prende la pistola sul comodino e spara, uccidendo il malvivente. Indagato per omicidio volontario.

Catania: la Corte d'Assise condanna un pensionato di 71 anni a 17 anni di carcere ed al risarcimento del danno. Motivo: ha ucciso con quattro colpi di pistola un uomo che si era introdotto di notte nel podere della sua casa di campagna.

Milano: Tabaccaio uccide rapinatore: condannato a un anno e otto mesi per omicidio colposo.

Arzago d'Adda: imprenditore spara e uccide con un fucile da caccia regolarmente detenuto un albanese che con altri complici stava cercando di rubargli la Mercedes. La Corte di Cassazione conferma la sentenza della Corte di Appello di Brescia di condanna a due anni ed otto mesi per eccesso colposo di legittima difesa. Dovrà andare in carcere e risarcire la famiglia del ladro.

Ponte di Nano: benzinaio spara per salvare la commessa di una gioielleria che sta subendo una rapina. Indagato per eccesso colposo.

Basta scorrere le pagine dei giornali o internet per trovare centinaia di casi similari, che giudizialmente andranno valutati caso per caso e nei quali sicuramente vi saranno (o vi saranno state) condanne nei confronti di vittime di furti o rapine che sono persone violente, cui l'evento ha stimolato tale istinto.

Il problema non è giudiziario, in quanto i magistrati applicano la legge, anche se non può essere sottaciuto che, in simili vicende, è fondamentale l'interpretazione della legge e della ricostruzione del fatto che viene data dall'uomo / giudice, intellettualmente condizionata dalla sua opinione su come ci si debba comportare in situazioni analoghe.

L'esperienza giudiziaria insegna che il garantismo riferito ai diritti del bandito ucciso è molte volte superiore a quella che socialmente è la vera vittima della vicenda, chi si è trovato involontariamente di fronte ad un evento che lo ha indotto a sparare.

Allora parlare di politica giudiziaria da rivedere non significa voler far superare alla magistratura il muro divisorio della separazione dei poteri, ma chiederle di prendere atto che il suo ruolo di supplenza all'inefficienza del Parlamento non può essere limitato alle grandi inchieste quali Mafia Capitale, atteso che la vita delle persone per bene è condizionata irrimediabilmente da simili episodi.

La massa di coloro che sono chiamati a giudicare, nella camera di consiglio di un tribunale, quale dovrebbe essere il comportamento di un essere umano di fronte ad un tentativo di rapina, ha una fortuna personale: non essere stato vittima di eventi similari. La massa dei giudici, quindi, può solo teorizzare, sulla base della propria sensibilità umana e dei propri studi anche in materia psicologica, quello che dovrebbe essere il comportamento della vittima che reagisce. E lo fa non nell'immediatezza dell'evento, ma molto tempo dopo.

E' facile giudicare se un fallo è avvenuto fuori dell'area o sulla linea riguardando l'azione alla moviola che propone le immagini riprese da diverse angolazioni. Sfido chiunque a non sbagliare se si trovasse sul campo al posto dell'arbitro. Gli arbitri, anche di serie A, sbagliano, malgrado si allenino tutti i giorni, perché sono persone umane che devono assumere decisioni in velocità.

Orbene, se sbagliano dei professionisti in situazioni alle quali sono abituate, come deve essere valutato il comportamento di un essere umano il quale, improvvisamente, magari in piena notte mentre si trova a letto nella propria casa, si trova aggredito?

Lo Stato, attraverso la legge penale, esercita la propria pretesa punitiva con riferimento a comportamenti dei singoli ritenuti disdicevoli perché rendono difficile la convivenza tra i singoli cittadini e, quale corrispettivo di tale pretesa, ha l'onere di assicurare alcuni servizi essenziali, ivi inclusa la sicurezza ed il rispetto della legge.

Se si escludono pochi violenti, può dirsi che la maggioranza degli Italiani non ha alcuna voglia di sparare ai ladri in casa propria, o nel giardino del proprio villino, o di inseguire armato chi lo sta derubando.

Ove ciò avvenga è perché lo stato non è riuscito a garantirgli quel minimo di sicurezza che ogni soggetto ha la pretesa di attendersi da uno stato, democratico o dittatoriale, cioè la sicurezza della propria abitazione, del proprio negozio o ufficio e delle strade.

E' palese che il difendersi da chi entra abusivamente nella propria abitazione non è un comportamento percepito dalla massa dei cittadini come lesivo della convivenza civile e tale percezione che sia giusto reagire, anche con le armi, aumenta allorché lo stato si mostra, all'esterno, incapace di svolgere il suo ruolo.

Orbene, un uomo che si trova costretto a sparare o che, a causa di un'aggressione ingiusta, non ha la freddezza di fermare il dito sul grilletto allorché impugna un'arma che ha comprato solo per paura e che non in realtà ben usare, subirà dall'evento <aggressione alla propria pace domestica> una punizione solo per dover ricordare quel giorno e vivere nella paura che si ripeta. E' giusto costringerlo a pagare un avvocato perché lo difenda da quello stesso stato che, in luogo di difenderlo, lo mette sotto processo e, forse, lo condannerà?

Una cosa è certa, egli sommerà allo shock dell'aggressione domestica anche quello dello stato che lo processa.

Il tutto in un clima d'illegalità diffusa che induce il cittadino a pensare che l'unica scelta che ha per sopravvivere è l'autodifesa.

L'illegalità diffusa si respira non solo pensando alla sicurezza nelle abitazioni o nelle strade o a macro fenomeni, quali <Mafia capitale>, camminando per le strade comunali, specie da Roma in giù.

Automobili parcheggiate sistematicamente in divieto di parcheggio, su strisce pedonali o davanti ai cassonetti, con i VV.UU. che intervengono solo se specificamente chiamati, fanno comprendere al cittadino che in città la legge non c'è, tutto è possibile, è la prepotenza a governare.

Allora, la domanda politica è: può lo stato inerme essere duro solo con le persone oneste che, forse, sbagliano quando reagiscono ad un'aggressione criminale?

Romolo Reboa 

* Avvocato del Foro di Roma


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Matite e rispetto

Subito dopo i fatti di Parigi scrissi sul mio profilo Facebook  che il mio cuore era una matita, spezzata per l'attentato di Charlie Hebdo e per il dolore di chi stava soffrendo e non riusciva a scrivere ed a portare con il propria sorriso la luce nella nostra comunità.

Non pensavo solo ai giornalisti assassinati, ma anche ai tanti sconosciuti, fari per le vite altrui e, che, in quanto tali, le rendono ogni giorno più leggere, senza magari avere la forza per sostenere la propria e sentendosi in colpa per tale debolezza.

Osservavo che bisogna reagire, mostrando un cuore multicolore, perché sono il sorriso e l'amore per la vita e per la costruzione anche solo di un sogno a darci quel pepe che ci costringe ad alzarci dal letto quando saremmo lì, inerti, a vedere in televisione lo scorrere degli eventi.

E senza un sogno o un ideale è difficile disegnare il futuro nostro e dei nostri figli, ogni movimento è pesante, le lacrime induriscono i muscoli, è difficile anche camminare.

Concludevo invitando a serrare i ranghi, a porre in alto i cuori, così come le matite, per impedire che il dolore, la disfatta di un momento potessero abbattere quel bellissimo disegno che è la gioia per la vita.

Papa Francesco, con la saggezza di chi è chiamato ad assicurare la pace, osservava che i giornalisti di Charlie Hebdo erano delle vittime e non degli eroi, mandando un segnale di comprensione per chi si era sentito offeso dai loro disegni e, quindi, non riusciva in cuor proprio a soffrire per l'evento terroristico ed oscurantista.

La guida dell'Illuminismo, Voltaire, era solito dire "Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo" e Martin Luther King ne riprese il pensiero affermando che "la mia libertà finisce dove comincia la vostra".

Uccidere una matita, anche se insolente e blasfema, è un crimine contro la libertà, ma ciò non impedisce di rendersi conto che anche una matita libera può uccidere la libertà, perché, andando a colpire sentimenti tanto profondi da confondersi con l'intimità dell'essere umano, sostanzialmente ferisce persone che vivono di ideali o di sogni. La maggior parte di esse si limitano a sentirsi offese ed incapaci di reagire, voltandosi dall'altra parte: altri ritengono la non violenza sottomissione e, purtroppo, la storia e le vittorie hanno spesso trasformato terroristi in eroi.

La rete internet, pur respingendo i velleitarismi che periodicamente la vorrebbero assoggettata a cappi o, almeno, cappiole, si è interrogata in maniera così potente su quale debba essere il limite della libertà di parola: non è un caso che il suo lato più oscuro, Anonymous, cioè la sigla della principale comunità degli hacker di tutto il mondo, abbia deciso di venire alla ribalta in grande stile, con una operazione di oscuramento della gran parte dei siti e degli account Facebook e Twitter degli jihadisti dell'Isis.

Gli hacktivisti, attraverso il loro blog, hanno lanciato un messaggio al mondo intero (e non solo a quello islamico) ricordando che "Internet è per la libertà di parola, non per l'odio".

In sintesi, i pirati informatici hanno scelto di uscire dal guscio individualista delle loro tastiere che si esaltano violando le difese altrui e, con una azione da far invidia al più sofisticato dei servizi segreti mondiali, sono diventati comunità a difesa della libertà, negando ad altri la possibilità di esprimersi liberamente, infestando il web di odio.

La comunità dei pirati ha messo in atto le parole di King, ha innalzato una barriera tra la propria libertà e quella degli assassini che, in suo nome, negano l'altrui libertà.

Una matita non può uccidere, ma il suo scritto ed il suo disegno possono essere letti come un'offesa e provocare azioni anche criminali a ritorsione dell'offesa.

Spesso si parla di libertà, ma quante volte si parla di rispetto per il pensiero ed i sentimenti altrui?

In una sorta di legalitarismo benpensante si è gridato allo scandalo perché i giocatori della Roma sono andati sotto la Curva Sud a giustificarsi con i tifosi per delle prestazioni sportive incolori ed indegne per degli atleti che ricevono in un anno compensi che molti degli spettatori contestatori non incasseranno mai in una vita di onesto lavoro manuale che, magari, gli consente un unico svago: il non economico biglietto per accedere allo stadio.

E' vero che, tra i tifosi, vi sono persone che utilizzano il tifo per dare sfogo ai loro istinti violenti, ma è analogamente vero che esistono molte teorie psicologiche sulla funzione cosidetta catartica del tifo (quello fatto di urla di incitamento ed insulti ad arbitro, avversari e beniamini scarsamente combattivi), cioè che, attraverso di esso, viene scaricato il surplus adrenalinico di aggressività conseguente le frustrazioni quotidiane.

Non è questa la sede per disquisire su fondamento o limiti di tali teorie, ma il lancio della frutta contro i "cantanti lirici cani".

nasce nei teatri dell'opera, a dimostrazione che ad ogni passione tradita corrisponde una reazione, anche in ambienti culturalmente ed economicamente più elevati di quelli degli usuali frequentatori di una curva.

E' giusto reprimere ogni forma di violenza, ma bisogna fare attenzione al perbenismo intellettuale che produce l'effetto opposto.

E' giusto non picchiare i figli, ma deve essere chiaro che il divieto è quello di sfogare sulla prole i propri istinti violenti, non quello della madre che da un "sano ceffone" al figlio per indurlo a mantenere un comportamento corretto che gli consentirà di avere una vita sociale.

Viceversa qualche benpensante della non violenza ha persino criticato la mamma nera a Baltimora che, vedendo il figlio in strada, impegnato a lanciare sassi contro la polizia nell'ambito delle proteste dopo i funerali del ragazzo afro americano Freddy Gray, ha reagito prendendolo a schiaffi davanti alle telecamere di tutto il mondo.

La maggioranza della popolazione mondiale ha applaudito quella mamma, così come la maggioranza dei laici contesta le offese agli altrui sentimenti religiosi, perché essere il principio fondamentale del libero pensiero è il rispetto.

"Chi è senza peccato, scagli la prima pietra", lo disse Gesù, difendendo l'adultera, senza con ciò assolvere l'adulterio, che è ancora censurato in una società moderna che espone il sesso in TV non per l'atto fisico, ma per i pericolosi riflessi sociali sulla psiche del partner, che vive l'evento come una offesa.

E allora, difendiamo le libere matite, ma ricordiamo sempre che le ragioni altrui meritano lo stesso rispetto di chi le vuole criticare.

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* Avvocato del Foro di Roma


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Il furbetto in Panda

Leggendo le squallide vicende della Fiat Panda del Sindaco di Roma, Ignazio Marino, ho sentito il dovere di riaprire le pagine della Costituzione della Repubblica Romana approvata il 9 Febbraio 1949. Pensavo all'esilio subito dal mio bisnonno, Alfonso Reboa, ad opera del restaurato Papa Re per aver creduto in quegli ideali, immaginando come egli, i suoi genitori ed i suoi figli e nipoti si stiano rivoltando nella tomba al solo pensiero che tanti sacrifici sono serviti solo per permettere all'auto del Sindaco di Roma di parcheggiare al sicuro presso il Senato della Repubblica e per entrare gratis al centro storico. Art. 2 dei principi fondamentali della Repubblica Romana: <Il regime democratico ha per regola l'eguaglianza, la libertà, la fraternità. Non riconosce titoli di nobiltà, né privilegi di nascita o casta>.

Ho appreso dai giornali che Ignazio Marino ha ricordato ai giornalisti che il Sindaco di Roma ha diritto all'accesso gratuito in zona ZTL per tre auto private, gridando al complotto perché la stampa ha scoperto che si è fatto togliere delle contravvenzioni, così come tentano tutti i  che incappano in una multa e che sono giustamente additati, anche dai politici, come una delle cause del terzomondismo in cui è caduta la capitale d'Italia.

Certamente il Sindaco è più raffinato: non si fa togliere le contravvenzioni, attraverso il sistema un po' casereccio della sparizione del documento cartaceo in seguito all'intervento   di un impiegato disonesto. Egli è un'autorità, così si rivolge agli uffici di cui è il capo politico, chiedendo l'annullamento in autotutela del relativo verbale...

E poi, per cercare di mettere giornalisticamente a tacere l'accusa di illegalità, si comporta come fece il Sindaco Veltroni nella vicenda della scoperta delle firme false in danno dell'allora Presidente della Regione Lazio, Francesco Storace: parla di una incursione informatica al sistema elettronico del Comune di Roma.

Strano modo di fare, quello dei sindaci del Comune di Roma, ribattezzato pomposamente Roma Capitale, auspice un Alemanno che avrebbe fatto meglio ad occuparsi dei problemi seri della città, piuttosto che a dedicarsi anch'egli a specchietti mediatici per le allodole.

Ogni volta che dai terminali cittadini escono le prove di abusi o reati non graditi ai sindaci, essi parlano di pirateria informatica, come fanno i bambini quando vengono rimproverati per una loro manchevolezza che pensavano non venisse scoperta, che, per prima cosa, invece di giustificarsi chiedono:  .

Poveri sindaci di Roma, nella loro foga di difendersi si dimenticano persino che un sistema informatico come quello di Roma Capitale deve essere gestito in maniera da prevenire ogni accesso abusivo ed il primo responsabile politico dell'eventuale successo dei pirati informatici sono proprio loro, i primi cittadini, per aver omesso di vigilare sull'adeguatezza dei sistemi e procedure di difesa elettronica.

Probabilmente non tutti sanno che, nel caso della presunta intrusione giornalisticamente chiamatoLaziogate, in cui purtroppo mi sono trovato coinvolto per aver fatto il mio dovere di avvocato, depositando alla Procura della Repubblica di Roma le prove di un grave reato contro le istituzioni, non vi è stata solo l'assoluzione di Francesco Storace e di tutti i coimputati per , ma vi era stata prima la condanna del Comune di Roma da parte dell'Autorità Garante della Privacy perché le difese informatiche del sistema anagrafico capitolino erano un colabrodo.

In sintesi, un'indagine giudiziaria, sgradita al Sindaco e poi dichiarata legittima con sentenza definitiva, ha fatto scoprire che chiunque, con facilità, avrebbe potuto alterare dati anagrafici: purtroppo i fumogeni mediatici impedirono che Veltroni pagasse il dazio di tale grave omissione, di cui era l'unico responsabile politico.

Il sindaco, per difendersi dalle accuse di abuso, rivendica quei privilegi di casta che i costituenti della gloriosa Repubblica Romana abolirono: e non importa se di quei privilegio godeva anche Alemanno, egli è già stato sconfitto e con lui la speranza dei suoi elettori, che credevano che i valori di ordine e legalità che erano stati i cardini della sua campagna elettorale, oltre che della sua giovinezza, avrebbero prevalso nella città.

Un sindaco gode dell'auto di servizio per fare il proprio mestiere di sindaco: che bisogno ha il dr. Marino di parcheggiare l'auto in spazi riservati ai senatori (ai quali il sindaco dovrebbe invece chiedere di pagare l'occupazione del suolo pubblico che sottraggono ai Romani) o di avere un accesso gratuito alla ZTL?

O vogliamo parlare della pessima figura fatta con l'apertura del Metro C e la sceneggiata dell'irruzione ad Ottobre al Ministero dei Trasporti perché non era stato concesso il permesso di operare ad una linea che qualche problema di funzionalità lo doveva pur avere, se il primo treno partito un mese dopo si è subito fermato?

E, poi, per tornare alla Panda Rossa parcheggiata al Senato, quello che è agghiacciante è pensare che la stessa è stata evidentemente portata a sostare lì per far arrivare il sindaco in bicicletta al Campidoglio, cioè per fargli fare ogni giorno qualche centinaio di metri di sgambatura propagandistica in bicicletta in una città che dopo oltre un anno che è stato eletto sindaco ha visto moltiplicarsi le buche nelle strade e non le piste ciclabili o i bike sharing municipali.

A proposito di bike sharing, basta andare sul relativo sito municipale (www.bikesharing.roma.it) per scoprire che non vi sono aggiornamenti dal 2010 e che, nelle 24 stazioni, si registra la presenza di solo 9 biciclette sulle 293 che, secondo il sito dovrebbero essere a disposizione dei cittadini, con tre stazioni (Arenula, Flaminio 21 e Roma III Torlonia) nelle quali si dichiara misteriosamente che dovrebbe esserci il posto per zero biciclette. Ma anche che vi sarebbe un numero (06 57003) che sarebbe attivo > per . Provato a chiamare in piena notte: ha risposto un operatore, che non ha informazioni sul bike sharinga dimostrazione che, su due ruote, dal Campidoglio, arriva solo la presa in giro dei Romani.

Romolo Reboa*

Avvocato del Foro di Roma


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