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Cultura

NELLE PROFONDITA’ DELLA VOCE

Si è inaugurata, il 9 aprile, la folgorante mostra “Il Corpo della Voce” al Palazzo delle Esposizioni, a cura di Anna Cestelli Guidi e Francesca Rachele Oppedisano, promossa dal Comune di Roma, che proseguirà fino al 30 giugno. Concepita come costante fonte sonora e visiva per il visitatore e come percorso esperenziale, tra il visibile e l’invisibile, ho incontrato, tra bagliori vocali e suggestioni tecnico-visive, il Presidente Cesare Maria Pietroiusti. Artista egli stesso e docente, laureato in Medicina con tesi in clinica psichiatrica, dal 1977 inzia a partecipare attivamente nel centro studi Jartrakor che fonda insieme a Sergio Lombardo. Sperimenta l’arte “relazionale” che prevede il coinvolgimento consapevole del pubblico attraverso stimoli visivi. Fonda e coordina centri di ricerca, espone in Italia e all’estero, il suo percorso rivela sempre l’interesse a scoprire, tra eterogeneità di forme e linguaggi, le possibilità di interazione tra opera, artista, fruitori e le opportunità di sconfinamento.

Cesare Maria Pietroiusti (foto di Ivo Corrà)          

Cesare Maria Pietroiusti (foto di Ivo Corrà)

D: La voce come strumento, ma anche come essenza e manifestazione evidentemente di qualcosa di più profondo da sondare, scoprire e attraversare. Perché fare una mostra di questo tipo, oggi, inserendovi all’interno tre protagonisti, in campi artistici differenti che hanno “esplorato” la vocalità?

R: E’ molto bella la metafora della profondità, perché, e me lo fa venire in mente lei in questo momento, tocca due aspetti: quello anatomo-fisiologico, perché la voce in fondo nasce in zone un pò profonde che sono la laringe, la trachea, l’apparato respiratorio, il nostro torace, insomma, nasce laggiù, dove il controllo cosciente arriva fino a un certo punto. Non le vediamo le nostre corde vocali. Ma la profondità è anche quella del senso, dell’espressività, della poesia, del canto, dell’immnensità, anche emozionale, che ovviamente una espressione vocale può dare. Credo che il motivo per cui abbiamo fatto questa mostra è proprio la ricerca e coincidenza di queste due profondità: quella del corpo, come anatomia, fisiologia e muscoli e la profondità dell’espressione teatrale, canora, di ricerca sull’espressione poetica di questi tre autori: Carmelo Bene, Demetrio Stratos e Cathy Berberian. Il motivo, quindi, è trovare questo punto comune tra il fisico e il linguistico, tra il sensibile e il simbolico, tra il livello, appunto, dell’anatomia e dell’espressività e individuarlo in una interazione tra discipline diverse. Ci sono il canto, il teatro, la musica rock, la poesia. Tutti territori che questi artisti hanno indagato e sperimentato, essendo loro stessi personaggi interdisciplinari.

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Carmelo Bene (1937-2002), per i suoi spettacoli-concerto, utilizzava i microfoni, come microscopi sulla voce: l’amplificazione della phoné era interpretata come lente di ingrandimento su quello che la voce poteva riuscire a compiere. Il medium rappresentava il prolungamento del corpo dell'attore, l'ipersensibilità dei monitor, avrebbe rivelato l'espressione, l'intensità e i valori della voce che sarebbero rimasti, altrimenti, solo lievemente percepiti.

D: Quindi, il bisogno e la ricerca di scoprire ancora qualcosa rispetto a quello che hanno rappresentato questi tre grandi precursori…

R: Assolutamente sì. Scoprire una potenzialità. Rendersi conto delle proprie potenzialità, ad esempio, vocali, in senso ampio. Gli esercizi con il metodo Linklater, previsti nella Mostra, servono ad introdurre, a rendersi conto di questa facoltà che tutti abbiamo indistintamente ed è certamente una scoperta grandissima. Sembra scontato il parlare, il cantare e l’esprimersi a livello vocale, ma non lo è affatto, averne consapevolezza offre delle possibilità conoscitive ed espressive straordinarie. Rendersi conto di come si articolino, ad esempio, il linguaggio e le consonanti nella bocca. Cosa si sente nel palato o nelle labbra quando si dice una “B” o quando si dice una “S” o la “R”, la consonante più complessa di tutte. Tutto questo non è scontato. Oltre al fatto che questi artisti ci presentano delle opere meravigliose che, essendo anche poco note, molte, possono rappresentare per il pubblico una scoperta.

D: Secondo lei, questi tre ricercatori, in anticipo sui tempi, su tutto quello che ancora non è stato fatto o che ancora non si è verificato, cosa hanno in comune?

R: I tre artisti hanno aperto delle strade che devono ancora essere percorse e hanno in comune la ricerca delle possibilità inesplorate della voce.

D: Questi tre ricercatori hanno cominciato a sperimentare le possibilità della voce e quello che si poteva fare, proprio attraverso la tecnologia. Il registrarsi ha permesso di scoprire e cogliere aspetti e valori che solo il Medium, in quanto tale,  riesce a carpire.

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Demetrio Stratos (1945-1979), mentre esegue i Mesostics di John Cage allo Spazio Fiorucci di via Torino, Milano, 1977, si spinge oltre i limiti fisici, interpretando la cavità orale, la bocca nella sua materia e fisicità, come un esperimento di infinte possibilità. (Foto di Roberto Masotti - Lelli e Masotti Archivio).

R: Quello che è successo anche all’Ottica, alla Visione con la fotografia con la possibilità di ingrandire. Walter Benjamin nel suo “L’opera d’arte nell’era della riproducibilità tecnica” descrive l’idea dell’inconscio ottico e come lo strumento ti consente di vedere aspetti che non vedevi prima o vederli comunque, in un modo diverso, creando una potenzialità anche per “l’occhio vivente”. I tre artisti sono differenti proprio perché aprono alla tematica da campi diversi, ma arrivano in quel punto di indistinzione, in cui il Logos, il significato della parola non è semplicemnte un rumore, diciamo prelinguistico bestiale, va in quella direzione, ma al tempo stesso approfondisce il suo senso e quindi, crea una vertigine, che loro tre rappresentano.

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Cathy Berberian (1925-1983), attraverso la sua poliedricità vocale e il suo essere anticovenzionale, diventa una eccezionale interprete e protagonista della musica contemporanea e sperimenta  le nuove possibilità della musica elettronica, diventando fonte di ispirazione per molti compositori del Novecento come John Cage, Luciano Berio, Sylavno Bussotti e Bruno Maderna.

D: All’interno del progetto-Mostra c’è uno spazio dedicato agli esercizi di memoria con Chiara Guidi, della Societas “Raffaello Sanzio”. Famoso il “Giulio Cesare” portato in scena dalla compagnia, dove, il personaggio di Marco Antonio, era interpretato da un laringectomizzato…

R: Chiara Guidi è una sperimentatrice dello strumento-voce, straordinaria, è inoltre una grande didatta. L’abbiamo chiamata a fare un laboratorio qui, perché ci interessa questo aspetto della formazione. L’interdisciplinarietà si misura sulle persone che non hanno una specifica competenza o quando vogliono metterla alla prova. E’ nel gruppo che si manifesta l’interdisciplinarietà e Chiara Guidi coinvolge settanta, ottanta persone che non sono cantanti, né attori e gli fa fare un coro affiancando quattro attrici. Per la prima volta realizza questo suo spettacolo, l’Edipo Re di Sofocle, partendo da un lavoro fatto con ottanta non professionisti, ottanta persone.

D: Che però hanno la voce...

R:  Come tutti! Anche gli afoni e i laringectomizzati hanno una voce.

D: Perché non si è consapevoli della propria voce? Avviene, per la maggior parte delle persone, uno spaesamento, qualcosa che è nostro, ma che sembra non appartenerci. Riascoltandoci diciamo: “Ma sono proprio io? Non è possibile! Non mi riconosco!” Perché non c’è questa coscienza?

R: Credo perché ci siano delle forme di atrofìa che riguardano in generale il corpo, in un tempo in cui le tecnologie prendono il sopravvento e, sostanzialmente, si sostituiscono. La comunicazione, oggi, è molto di immagine, di testo, di schermi: computer, telefonini etc. etc. e meno sulla voce, ma soprattutto perché io credo che ci sia una svalutazione della consapevolezza come valore in sé. Siamo tutti orientati, dal contesto, a spingere sulle nostre capacità performative, pensando solo al risultato. Performance all’inglese, sull’obiettivo.

D: L’effetto wow…

R: Sì! Siamo stimolati solo dall’obiettivo da raggiungere nella vita, nella giornata, nella nostra azione lavorativa, ma la prassi della vita in sé, della forma di vita in sé, è considerata una perdita di tempo, mentre è il modo migliore per utilizzare il tempo.

D: Quindi c’è un distacco da se stessi?

R: C’è, in un certo senso, un distacco dalle proprie potenzialità, sono considerate una cosa minore, non importante, ed è per questo che io dico sempre che L’ARTE E’ L’ACCESSO AL SENSIBILE ed è LA PRIMA FORMA DI GIUSTIZIA SOCIALE perché è il terreno sul quale ognuno può godere di livelli di bellezza dell’intensità conoscitiva che sono disponibili per tutti, mentre ci fanno credere che sono solo per pochi. Questa è la grande ingiustizia dei nostri tempi. C’è una sconnessione rispetto a quelle potenzialità: tutti dobbiamo comperare lo stesso telefono, la stessa automobile, fare le stesse cose. Il valore dell’esperienza che la ricerca artistica può offrire, come scoperta di sé, piacere e soprattutto intensità, non è considerata in ambito sociale.

D: Una società liquida, come spesso definita, che non consente quindi una realizzazione empatica tra esseri umani. I rapporti umani sono polverizzati e si diventa anafettivi, per citare Massimo Fagioli, con l’anaffettività il corpo non c’è, il corpo si perde, il corpo si sgretola…

R: Infatti, queste forme di vita di accesso al sensibile, sono delle forme comunitarie per me.

D: Secondo lei, Roma, che voce ha in questo momento della sua storia? Mi può dare un suono? Me lo può sussurrare?

R: Non so se si può sussurrare il suono di Roma, non avrei la presunzione di fare questa sintesi, però credo che sia un suono plurale in cui, purtroppo, troppo spesso, le singolarità non entrano in una coralità, che come ci insegna Anna Arendt, è l’unico modo in cui si è umani e si fa politica.

 

Claudia Cotti Zelati


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Monna Lisa Gorga

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E’ andata in scena, ieri sera, 6 marzo, al Teatro Lo Spazio di Roma, l’ultima replica dello spettacolo Monna Lisa unplugged di Pino Ammendola e Carla Cucchiarelli che ha come protagonista Maria Letizia Gorga, accompagnata al pianoforte dalla brava, attenta e simbiotica compositrice e direttrice d’orchestra Cinzia Pennesi, che ha curato anche gli arrangiamenti. Video art di Claudio Ammendola e Sara Angelucci. Liberamente tratto dal libro di Carla Cucchiarelli “Così parlò la Gioconda”, lo spettacolo comincia a parlarci già dalla sua locandina: la Gioconda è fuori dalla sua cornice, a mezzo busto, come nell’originale, ma ha le unghie smaltate di rosso e poggia il suo avambraccio sinistro non più sul bracciolo di una sedia, ma su alcuni libri. Questa immagine pop non rappresenta una operazione di demitizzazione come fu per le reinterpretazioni fatte da Andy Warhol o Fernando Botero o addirittura da Jean-Michel Basquiat, piuttosto rivela una suggestione, un proposito del regista, capace di creare una sorpresa per la mente dello spettatore e umanizzare la protagonista.

La Gioconda è il ritratto più famoso al mondo, opera del genio Leonardo da Vinci e “vive” al Museo del Louvre di Parigi, è dipinto su una tavola di pioppo alta 77 cm e larga 53, la superficie del quadro è attraversata da mezzo milione di piccolissime screpolature che rivelano la sua età; fu realizzata, infatti, intorno al 1504 e lo strato del dipinto si è conservato quasi integralmente. La donna rappresentata è Lisa Gherardini, vale a dire Monna Lisa, moglie del mercante Francesco del Giocondo.

Il capolavoro si antropomorfizza e appare sulla scena attraverso l’interpretazione intensa e vibrante dell’attrice e cantante Maria Letizia Gorga. “Nella mia prigione dorata la musica è una così grande consolazione…” dice Monna Lisa. Il monologo è altresì arricchito da brani come Muovesi l’Amante dello stesso Leonardo da Vinci, Les feuilles mortes di Joseph Kosma su parole di Jacques Prévert, Mona Lisa di Ray Evans e Jay Livingston, Come Monnalisa di Mango, Monna Lisa di Ivan Graziani e altri, eseguiti dalla voce profonda della Gorga che racconta la storia di uno sguardo femminile che percorre cinquecento anni della sua vita. Monna Lisa diventa un io narrante consapevole e, attraverso la gestualità, la vocalità, lo sguardo, le mani, i piedi nudi e perfino i capelli lunghi dell’attrice che si animano, dà voce alla propria umanità.

E’ la storia di una donna rivolta ad uno “ieri e allora”, per arrivare al contemporaneo e più esattamente al presente indicativo e, quindi, al suo “qui ed ora”. “Anche io sono stata oltraggiata”, ricorda Monna Lisa, riferendosi al lancio di una pietra da parte di uno squilibrato nel 1956, o quando una donna in Giappone le spruzzò vernice rossa, per fortuna, senza centrarla, oppure quando il suo dipinto venne rubato. Conosciamo così, a poco a poco, la storia rocambolesca, avvincente, del ritratto più famoso al mondo, da un altro punto di vista, pensando al tempo stesso a ogni singola donna che, ogni giorno, in ogni parte del mondo, subisce un atto di violenza psicologica o fisica.

Misterioso ed enigmatico il suo sorriso quanto profondi e vivi i suoi occhi, che ti seguono ovunque. L’attitudine voyeuristica di Monna Lisa-Gorga ci rivela l’avventura di uno sguardo sulla Storia, ma anche di uno sguardo che guarda lo sguardo. Interessante come attraverso il focus su  questa figura femminile cinquecentesca, in realtà Maria Letizia Gorga parli di una Gioconda invisibile, non percepita, che può essere presente in tutte le donne: quando una donna si allontana dalla propria essenza o centro vitale, quando viene scrutata troppo nella sua intimità, quando una donna viene piacevolmente sedotta, ma anche quando una donna viene riconosciuta e accolta per la sua intelligenza, per le sue capacità, per quello che lei è e per quello che fa.

Monna Lisa fu immortalata da Leonardo da Vinci, chissà per quanto tempo l’avrà osservata e studiata, ma anche lei osservava lui. È la storia di sguardi che si guardano, poi, concluso il tempo di posa, diventa l’avventura di uno sguardo sul mondo: “…dietro quei vetri non sono fuori dal mondo, sento tutto, da anni: i commenti di chi mi guarda, i rumori dei carrimobili sulla strada…”. E’ come se Monnalisa diventasse sguardo-guardato. Può valere qui la lezione di Jean Paul Sartre: “Infatti io fisso in oggetti la gente che vedo, e sono, in rapporto ad essi, come l’altro in rapporto in me; guardandoli, misuro la mia potenza. Ma se altri li vede e mi vede, il mio sguardo perde il suo potere; non può trasformare quelle persone in oggetti per altri, perché esse sono già oggetti del suo sguardo. Il mio sguardo manifesta semplicemente una relazione, in mezzo al mondo, dell’oggetto-io all’oggetto-guardato, qualcosa come l’attrazione che due masse esercitano l’una sull’altra a distanza. Lo sguardo d’altri mi conferisce la spazialità. Sentirsi osservato, è cogliersi come spazializzante-spazializzato”.

Monna Lisa unplugged suscita quindi due sentimenti: l’attenzione per gli eventi legata alla sua storia, ma anche la sorpresa di cogliere, ascoltare e interpretare quello che di attuale, afferente al nostro presente indicativo, Monna Lisa può dirci. “Le donne mi guardano, mi amano e mi odiano…ma anche io le guardo e osservo. Ho imparato da loro a riconoscere le stagioni, il caldo che arriva…le piogge..”. Umanizzandosi, uscendo fuori dal proprio mito, attraverso la corporeità, la voce e la gestualità dell’attrice, Monna Lisa si arricchisce di nuovi stati d’animo, non è solo il sorriso imperscrutabile, misterioso, enigamatico, ma diventa una donna capace di vivere, ascoltare, vedere, pensare, sorridere ed essere anche ironica. Prende le distanze dal proprio mito per scoprire la propria identità e per capire chi è, non per come gli altri vogliono e pensano che sia, ma per quello che è a misura di se stessa e di quello che sente di essere. Monna Lisa quindi manifesta una empatia con il mondo, è in costante attività emotiva con chi la visita e la studia. “Io sono colei che mi si crede” potrebbe dire, parafransando Pirandello, “ma rimango una donna con le mie emozioni e con  il mio corpo dentro la storia”, potrebbe pensare.

“Finito il mio sorriso, scompare la Gioconda, pian piano in tutto il pianeta la gente smette di sorridere, scompaiono secoli di storia…il mio sorriso sovrapposto alle rovine di una città siriana distrutta dalla guerra civile..”. Dalla sedia, vicino al proscenio, Monna Lisa-Gorga si alza, continua a raccontarsi e a raccontarci, in modo elegante ed affascinante, di quando, con una lacrima apposta sulla sua immagine, è diventata una cartolina storica, testimone dei quattro anni di assedio a Sarajevo. La protagonista, per la sapiente regìa di Pino Ammendola, attraverso una voce a tratti impalpabile, densa e sospesa, diventa coscienza, diventa riflessione, diventa uno sguardo-madre con un sorriso non più indecifrabile ma trattenuto, imploso per l’impronunciabilità di qualsasi parola di fronte all’orrore dei bambini in guerra che scappano sotto le bombe.

Dal ritratto si passa infine, in tutta la composizione dello spettacolo, alla costruzione di un duplice “autoritratto”: quello della Monna Lisa, che si affranca dal suo essere solo opera d’arte mitica, per divenire corpo, identità, reattività, resistenza, pensiero, azione ed affettività in cui ogni donna può riconoscersi, e quello della Monna Lisa-Gorga attrice che ha, in modo efficace e sensibile, dato vita al personaggio.

Claudia Cotti Zelati


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Una Notte sul Monte Calvo...nel jazz club!

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Abbiamo incontrato all’Alexanderplatz (storico tempio del jazz di Roma fondato nel 1984 da Giampiero Rubei e oggi guidato dal figlio Eugenio, che lo ha riaperto da poco) il contrabbassista Valerio Serangeli, ideatore e arrangiatore dell’interessante e bellissimo progetto Russian Crossover Project con Luca Ruggero Jacovella al pianoforte, Alberto D'Alfonso al flauto e sax, e Alberto Botta alla batteria.

D: Iniziamo dal titolo. Puoi dirci il significato di queste tre parole? Russian, Crossover e Project?                                               

R: Russian perché noi facciamo un repertorio che sono delle rielaborazioni di brani di compositori russi, per cui abbiamo Borodin, Tchaikovsky, Rimskij-Korsakov, Musorgskij e Rachmaninov. (n.d.r. tranne Tchaikovsky e Rachmaninov, gli altri appartanevano al Gruppo dei Cinque il cui ideale era creare una musica che fosse autenticamente russa e rispettosa delle proprie radici culturali). Il progetto l’ho elaborato in occasione della mia tesi di laurea in jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nasce quindi come esperimento di studio e di ricerca. La discussione, prevedendo una parte “suonata”, è stata lo spunto per approfondire i punti di contatto tra la musica classica e il jazz. Ho pensato ad un arrangiamento jazz di Shahrazād di Rimskij-Korsakov, che già faceva parte dei miei ascolti giovanili. Ho sempre amato la musica classica russa e la sua capacità di coinvolgimento emotivo. Così Shahrazād l’ho voluto riascoltare, studiare e soprattutto eseguire, e da qui è iniziata questa avventura musicale.

D: Sono comunque musiche che hanno una grande eco anche tra un pubblico molto vasto ed eterogeneo. Puoi dirci qualche particolare?

R: Sì, infatti un’altra opera fondamentale del progetto è “Danze Polovesiane” da “Il Principe Igor”, da cui è stata tratta la famosa canzone “Stranger in Paradise”.          
Le melodie, oltre ad essere bellissime, si sono rivelate adatte ad essere arrangiate. “Una Notte sul Monte Calvo” di Mussorskij è stata addirittura ripresa dai gruppi progressive negli anni ‘70, la ritroviamo nel film d’animazione “Fantasia” di Walt Disney. 

D: La creatività può essere una combinazione inedita, soprattutto in musica come abbiamo ascoltato questa sera.

R: Parliamo quindi di Crossover: per quanto riguarda questa parola, il jazz stesso è crossover perché è un incontro di culture, la cultura africana che a forza ha incontrato la cultura occidentale purtroppo con la schiavitù; il jazz quindi è già una ibridazione perché all’interno troviamo temi religiosi africani, c’è la musica classica, c’è il vaudeville. Anche i compositori russi erano degli IBRIDATORI, perché prendevano la musica popolare russa per recuperarla e trovare le proprie radici, come aveva già fatto Michail Ivanovič Glinkanoi quindi non siamo altro che dei crossover di altri crossover di altri crossover ancora!

D: Interessante il termine IBRIDAZIONE che hai utilizzato e non CONTAMINAZIONE. Contaminazione viene spesso usata e abusata in ambito artistico. Contaminare significa “infettare”, ibridare forse allude al mantenere le radici e avere l’anelito all’incontro dal diverso da sé.

R: Un po’ come hanno fatto gli antichi romani con i Greci, migliorando la loro cultura. Se fossero rimasti ognuno nei propri confini non si sarebbero evoluti. L’ibridazione in genere migliora: A e B sono gli ibridatori, C è il risultato del meglio di A e B insieme.

D: “Project” perché?

R: I brani che suoniamo non sono a caso, oltre ad essere russi, all’interno ci mettiamo tutto il nostro background, ci mettiamo il jazz soprattutto, l’improvvisazione, il linguaggio jazzistico quindi, ma anche il latin, ci mettiamo per quanto mi riguarda finanche il progressive. Sono un po’ malato di progressive!! Io amo il jazz ma ascolto i Genesis, gli Yes, e quando li ascolto li paragono ai grandi jazzisti perché improvvisano in modo straordinario.

D: Il gruppo è formato da musicisti di estrazione jazzistica. Quanto spazio c’è, dal momento che parli di arrangiamenti, all’interno del Russian Crossover Project, per l’improvvisazione o anche per l’estemporizzazione, secondo la definizione che ne da il musicologo Vincenzo Caporaletti.

R: Per quanto riguarda gli arrangiamenti, ho letto che Mingus, anche Duke Ellington, portavano gli arrangiamenti “aperti”. C’era un pezzo nuovo per l’orchestra, ma non era mai tutto scritto e già definito, perché sapeva chi erano i musicisti, le capacità che avevano e lasciava che si suonasse con la consapevolezza che ognuno di loro potesse dare il proprio personale contributo. In questo lavoro il 90% è frutto dei miei arrangiamenti ma, durante le prove, si sprigionano le attitudini e le suggestioni ritmico-melodiche di ogni componente del gruppo. Diventa quindi una prova in divenire, tutto deve essere aperto, forse questi stessi brani che abbiamo suonato stasera, al prossimo concerto li suoneremo diversamente, in un altro modo, perchè non ci piacciono più o perchè siamo cambiati anche noi. L’improvvisazione per noi è naturale. I Weather Report è un gruppo che io amo e c’è poca improvvisazione. Per tutta la vita hanno improvvisato e poi hanno deciso di non farlo più. Hanno detto “facciamo un gruppo dove tutto è stabilito o quasi”. Invece noi presentiamo il tema, sempre “estemporizzandolo” ovviamente, poi si improvvisa, dopo ancora c'è un altro pezzo del tema e di nuovo si improvvisa, e così via…inframmezziamo i vari momenti.

R: Hai parlato di ibridazione e ti chiedo allora se prevedi l’incursione di una voce all’interno di questa formazione.

D: Sarebbe una incursione interessante e molto forte; sai che ci sto pensando? A quel punto scriverei arrangiamenti anche per la voce, magari  non per tutto il repertorio, ma vorrei una voce particolare che intervenisse come un ospite gradito. Il progetto Russian è aperto e favorevole alle sperimentazioni e a scoprire cosa si può realizzare.

D: Avete anche inciso un primo album dal titolo omonimo.

R: Abbiamo realizzato il CD, che attende di essere distribuito digitalmente, nel quale hanno suonato il pianista Luca Ruggero Jacovella, il sassofonista Alessandro Tomei (sostituito questa sera da D'Alfonso) il batterista Alberto Botta e Valeria Serangeli, primo clarinetto dell'Orchestra Sinfonica del Carlo Felice. Con questa formazione siamo stati invitati a suonare in luoghi prestigiosi come l'Istituto di Scienza e Cultura Russa a Roma e al Teatro Carlo Felice di Genova.

Prossimi appuntamenti?

R: Ci stiamo organizzando per proporre all’estero questo progetto con i miei bravissimi compagni di viaggio e dopo averlo suonato in Italia, cercheremo di portarlo proprio in Russia!

Claudia Cotti Zelati


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Il plagio in musica attraverso un diverso approccio culturale

Negli articoli precedenti abbiamo seguito la vicenda legata al presunto plagio del brano "Rolls Royce". Partendo da questo fatto, siamo riusciti a contattare il M° Luca Ruggero Jacovella, che  ha suggerito un interessante e innovativo approccio cognitivo per la valutazione dei casi di plagio.

Ricordiamo che Jacovella è un raffinato musicista e compositore che svolge ricerche sull'applicazione di specifiche teorie musicologiche al diritto d'autore, redigendo innovative proposte di legge per conto del Sodalizio Sos Musicisti, alcune delle quali depositate presso la 7a Commissione Permanente Cultura e Spettacolo del Senato della Repubblica. Tra l'altro è stato nominato socio emerito della Società Italiana Esperti Diritto delle Arti e dello Spettacolo.

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D: Quali sono le differenze tra somiglianza e plagio?

R: La musica creata (“composta”, pur non essendo la composizione l’unico processo formativo possibile) è da sempre soggetta alle influenze di altri autori e di altre opere. Nel passato, le ampie citazioni e gli “omaggi” musicali ad illustri colleghi erano la prassi consolidata. Eppure, la creatività che sgorgava in queste epoche ci ha lasciato capolavori che successivamente sono stati considerati dei “classici”.
Oggi invece c’è una sorta di dicotomia tra prassi musicali e giurisprudenza: in quest’ultima si va a ricercare l’originalità “assoluta” rispetto al passato (circostanza pressoché impossibile su brevi stringhe musicali) ma circoscritta allo specifico parametro musicale della melodia. Io mi pongo in maniera critica riguardo questa tendenza. Un conto è quindi la “somiglianza”, frutto di ispirazione o di ineludibile influenza culturale (definite anche “larcins imperceptibles”), e ben altro è il plagio, che sussiste quando l’appropriazione indebita di materiale musicale appare o pedissequa oppure inequivocabile, nonostante le possibili e molteplici tecniche di trattamento, anche spontanee (faccio riferimento al concetto di “estemporizzazione” all’interno della “Teoria della Formatività Audiotattile” del prof. Vincenzo Caporaletti); ed è questo il plagio-contraffazione.

D: Lei è stato interpellato anche per il recente caso che riguardava la canzone “Rolls Royce” di Achille Lauro al Festival di Sanremo e una band di Latina, la “Enter”, la quale ha ritenuto di essere stata plagiata. Cosa ha evidenziato nello specifico?

R: In questo specifico caso pur essendo le canzoni diverse, il riff strumentale di base era pressoché il medesimo. Un riff è una frase, anche breve, ripetuta ostinatamente diverse volte, ed in molte opere rock, jazz e pop costituisce la composizione stessa. Caso diciamo singolare…perché, come ho appena detto, nella giurisprudenza italiana viene presa in considerazione solo la melodia cantata (o cantabile) di un brano, ma vengono trascurati, per ovvie ragioni culturali, altri parametri musicali importanti, tra cui i riff anche quando assumono ruolo fondante dell’opera, come nel caso di specie.

D: Cosa proporrebbe come miglioria sistemica nel sitema di valutazione dei casi plagio?

R: Due sono i problemi, seri, che ravvedo sempre nelle cause di plagio: il primo riguarda un errato concetto di “originalità”, del quale ho fatto menzione prima, ed il secondo riguarda la scelta dei CTU. In tante altre branche del sapere è ovvio che sia imprescindibile la specializzazione, ad esempio un medico odontoiatra non potrebbe valutare un caso inerente la chirurgia cardiovascolare, oppure un ingegnere aereospaziale difficilmente si potrebbe pronunciare su un caso di edilizia civile. Nella musica, invece, si crede erroneamente che qualsiasi Maestro o docente di Conservatorio, o qualsiasi perito possa esprimersi su problematiche di qualsiasi genere di musica. La moderna ricerca musicologica e scientifica ha invece evidenziato come alla musica “classica” e a quella comunemente conosciuta come “popular” corrispondano diverse cognitività poste a fondamento di alternative processualità formative e, quindi, di opposte attività di codifica-decodifica delle opere.

Claudia Cotti Zelati


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Corpo, pulviscolo e affettività

Intervista a Claudia Cotti Zelati

Claudia Cotti Zelati


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